Dal diario di Giacomo Tissi

3 novembre 1917

La sera abbandonammo la posizione. L'ordine definitivo di ritirata giunto al C.do di cp. durante il giorno, ci aveva sorpresi ancora occupati al disbrigo delle numerose e svariate operazioni che il pensiero di lasciare al nemico il meno possibile richiede. Raccolto il materiale che più si prestava ad essere trasportato, fu dato mano, per ultimo, ad abbattere e rendere inservibili i baraccamenti e a far scomparire, seppellendole nella neve, le riserve di bombe a mano e cartucce che non potevamo portare con noi. Alle 18.30 la cp. si metteva in marcia. I soldati curvi sotto lo zaino, procedevano faticosamente affondando nella neve che abbondante copriva il terreno. La mulattiera aspra e tortuosa, che salendo dalla linea conduce al Pian di Lavaredo, ci costringeva a dei frequenti 'alt'; in quei momenti di sosta i miei sguardi si volgevano seguendo il sentiero percorso per fermarsi laggiù dove si profilavano le trincee e nereggiavano sfasciate ed informi le baracche che per tanti giorni ci avevano ospitati. Riprendendo il cammino si procedeva in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Di tanto in tanto risuonava la voce di un ufficiale che incitava i soldati più tardi a tenere il collegamento; si udiva l'imprecazione irosa di quello che, sdrucciolando, si rialzava a stento, impacciato dal greve equipaggiamento di guerra, poi ritornava il silenzio rotto solo dall'ansimare degli uomini e del continuo picchiettare fra loro di fucili e baionette, di alpenstok e di boracce. La colonna si snodava per le sinuosità del sentiero simile ad un enorme nastro bruno che si svolgesse sopra un candido campo. In lontananza echeggiava ad intervalli il solito "tac-pum" delle vedette austriache che vigilavano sulle loro posizioni, mentre noi furtivamente abbandonavamo le nostre. Le vette eccelse di Cima Undici e Cima Dodici biancheggiavano maestose in quella notte di luna e sembrava che, dolenti di vedersi abbandonate, andassero chiedendo a noi e a a Dio: "Perchè ... perché?". Tutti sentimmo in quei momenti l'angoscia del distacco e comprendemmo allora di amare le rocce che talvolta, attraverso il nostro egoismo, ci erano apparse come la triste espressione di una vita impossibile. Così, dopo due anni di guerra, si lasciavano quei luoghi dove il valore italiano si era affermato in una lotta tenace ed insidiosa ... Verso le 9 arrivammo al Comando di Btg. e dopo una sosta di qualche minuto riprendemmo il cammino scendendo per sentieri che correvano in bruschi zig-zag sul fondo di ripidi canaloni. Laceranti detonazioni devastavano per l'ultima volta gli echi della montagna e ne vibrava l'aria d'intorno: saltavano i pezzi d'artiglieria che non si erano potuti salvare. Come suonavano lugubri quei colpi! Vi si indovinava un senso di disperata impotenza, di risoluzione estrema. Erano le ultime sentinelle d'Italia che morivano sulla frontiera!

4 novembre

L'alba ci trovò a Valmarzon, presso la nazionale che conduce ad Auronzo. Fra i numerosi e vasti baraccamenti che occupavano il fondovalle regnava un'animazione insolita, un tumultuoso andirivieni di soldati, di carriaggi, di muli, di cavalli, un vociare confuso, un incrociarsi di ordini, di chiamate, di bestemmie, un febbrile lavoro per abbattere e distruggere ogni cosa. Stanchi, dopo l'intera notte di marcia faticosa, i miei colleghi ed io riposammo qualche ora in una stanza terrena, dove i nostri attendenti avevano disposto in fretta un po' di paglia. Alle ore 10 dovemmo alzarci, chiamati a rapporto dal Colonnello per comunicazione di ordini: la mia compagnia doveva recarsi a sbarrare la valle che per Federa Vecchia mette a Misurina con lo scopo di proteggere la ritirata di altri reparti e permettere lo sfollamento di salmeria e carreggi. Alle 14.30 ci dislocammo raggiungendo il posto dopo un'ora di cammino; alle 16.30 occupavo con il mio plotone il bosco che si trova sulla destra del torrente Ansiei. Distribuiti gli uomini in servizio di avamposti, sedevo ai piedi di un albero e levata di tasca una lettera, consegnatami poc'anzi, ne stracciavo ansiosamente la copertina. Era mio fratello Enrico che scriveva [...] La notte era scesa. Sotto le piante l'oscurità si fece profonda. Giunse intanto il mio attendente portandomi pochi cibi nella sua gavetta. Mangiai al buio, poco e svogliatamente, mi avvolsi nella mantellina ed appoggiato al tronco di un pino stetti a pensare mentre, a poco a poco, il sonno e la stanchezza mi appesantivano gli occhi. Ma non potevo, non dovevo dormire; il nemico era troppo vicino. Verso la mezzanotte un soldato mi portò un biglietto da parte del Capitano. Per prudenza, essendo proibito di accendere fuochi, mi rannicchiai facendo col mantello una specie di tenda che, posando sul mio capo, scendeva fino a terra e lì sotto alla luce di un fiammifero, lessi ciò che il Capitano aveva scritto: "si era venuti a conoscenza che le prime pattuglie nemiche puntavano su Misurina, raccomandavasi quindi la massima vigilanza". [...]

5 novembre

Giornata splendida di sole, mite nell'aria. Alle ore 14 pomeridiane lasciavamo quella posizione per iniziare senz'altro la marcia che doveva portarci sulla linea del Piave. Quando la mia cp. giungeva a Casoni Crociera tutti quei baraccamenti erano in fiamme. La tragica scena è ancora viva e impressa nella mia memoria in tutta la sua terrificante grandiosità. Ai numerosi fabbricati che, sulla sinistra della rotabile, occupavano una vastissima area, era stato appiccato il fuoco e le fiamme alimentate dalla brezza serale andavano rapidamente avvolgendo ogni cosa. Il calore sprigionato da quell'immenso braciere giungeva fin sulla strada con tale intensità da obbligarci a percorrere il tratto più vicino di corsa per passare dall'altra parte. Un frastuono assordante riempiva l'aria. Insieme allo schianto dei tetti che cadevano, agli scricchiolii del legname che carbonizzava, era un continuo succedersi di secche detonazioni: scoppiavano le migliaia di cartucce e di bombe rimaste dimenticate e nelle varie baracche. Pareva che delle mitragliatrici sparassero senza tregua, che delle mani invisibili lanciassero delle bombe in tutte le direzioni e in aria le schegge fischiavano rabbiosamente. Le prime ombre della notte cadevano su quell'inferno e col buio aumentavano i bagliori e più lunghe si scorgevano in alto le lingue di fuoco. Un fuoco denso, nerissimo s'innalzava da quel rogo gigantesco in enormi volute, tali da nascondere al nostro sguardo il paesaggio circostante fin su alle più alte creste di Lavaredo. Sulla strada intanto regnava una confusione ed un affollamento indescrivibili. I vari reparti stavano incolonnandosi alla meglio per partire; tutti gridavano in un continuo ondeggiamento. Chi si faceva largo a colpi di gomito cercando il proprio plotone, chi si aggiustava lo zaino sulle spalle, chi chiamava i compagni. Ufficiali e sergenti si sgolavano per mettere un po' d'ordine aprendosi a stento la via in quel caotico ammasso di gente. Ogni tanto voci di: "largo, largo" gettavano di più lo scompiglio; tutti ripetevano quel grido ma nessuno si muoveva; poi lentamente, con movimenti tardi come di un mostro che stiri le membra, le file si aprivano per dar posto a camions carichi di materiale e di uomini, a colonne di muli, a traini di artiglieria. Il frastuono assordante, la vista dell'incendio facevano imbizzarrire i quadrupedi. I muli sparavano calci a destra e a sinistra, i cavalli s'impennavano e i conducenti appesi alle capezze venivano sbattuti gli uni addosso agli altri. Parecchi finivano tra le zampe delle bestie urlando come indemoniati, altri correvano a porgere aiuto unendo le loro alle grida dei compagni ed intanto il tumulto cresceva, cresceva, estendendosi da un capo all'altro della strada e tutt'intorno sui prati brulicanti di soldati. Vengo avvertito che il Capitano mi cerca per comunicazioni. In mezzo a quel trambusto riesco finalmente a trovarlo: mi dice che devo assumere il comando della compagnia dovendo egli prendere quello di un Btg. provvisoriamente costituito da una cp. complementare del Reggimento, dalla nostra e da una cp. di territoriali. Ci mettemmo, come Dio volle, in marcia; ma il procedere si rese, fin dall'inizio, impacciato e faticoso per il continuo ingombro, sulla via, di carriaggi di ogni specie. Man mano che si avanzava, alle nostre spalle, i soldati del Genio facevano saltare ponti e viadotti. Un susseguirsi di scoppi assordanti faceva tremare la terra, la notte era squarciata da vividi lampi e l'aria infuocata dava aspetto diabolico ad ogni cosa. La gelatina esplosiva proteggeva la nostra ritirata, mettendo tra noi e il nemico l'ostacolo di fumanti macerie. Auronzo, il primo paese incontrato, era tetro e silenzioso. Quasi tutte le case con porte e finestre sbarrate. Solo qualche luce trapelava da un'imposta sconnessa o da una porta socchiusa sulla cui soglia si profilavano delle ombre umane. Passandovi accanto si udivano sommesse parole e sospiri, brevi ansiose domande a noi rivolte: "Dove sono gli austriaci? Giungeranno domani?" Ricordo di una vecchietta che andava ripetendo tra i singhiozzi, come un mesto ritornello, sempre le medesime frasi: "O pore noi, pore fioi, Gesù, Maria i va via tuti, kosa saralo de noaltri!". Qualcuno rispondeva con una parola che voleva essere di incoraggiamento ma risuonava vana ed inefficace, sfiorando quel dolore senza lenirlo. Ci era stato detto che a Cima Gogna si sarebbe fatto alt per riposare fino al mattino. Ognuno affrettava col pensiero l'arrivo anelando a quella tappa che la grande stanchezza richiedeva. Come giungemmo, un contrordine allungava la marcia fino a Vallesella. Altri 17 km quando già stavamo pregustando un po' di sonno riparatore! Passando per Treponti guardai con tristezza la rozza lapide che ricorda l'epica resistenza fatta nel 1866 dagli uomini di Garibaldi alle invadenti orde austriache e pensai al dolore che avrebbe straziato il gran cuore dell'eroe se egli avesse dovuto assistere al nuovo lutto d'Italia. Raggiungemmo Lozzo che, come Auronzo, era buio e deserto. Alla sua sinistra, sul colle biancheggiava il paesetto di Pelos dove l'anno prima avevo soggiornato per un po' di tempo in distaccamento di cp., godendo dell'amicizia e dell'ospitalità offertami da persone buone e gentili.

6 novembre

Il mattino alle 4 giungemmo finalmente a Vallesella, impiegando così la bellezza di 12 ore per coprire un percorso di 32 km. Questo fatto di per se stesso può dimostrare tutta la difficoltà e lentezza con cui si effettuava la ritirata, causa l'enorme ammassamento d'uomini e materiali costretti a sfilare su un'unica strada. La truppa si accantonò un po' dappertutto, nelle case e nei fienili, e noi ufficiali trovammo posto in canonica. Ci venne ad aprire la sorella del prete, tremante di paura per l'improvviso tumulto che il nostro arrivo aveva recato in paese. La poveretta balbettava e piagnucolava incapace di rimettersi dallo sbigottimento provato alla vista di tutta quella gente armata. Il nostro aspetto, a dire il vero, non doveva essere troppo rassicurante, stravolti come eravamo per la stanchezza e sporchi di polvere e di fango; ma il tono con cui chiedemmo asilo deve aver suonato tanto umile ed implorante da intercedere per noi mitigando la nostra prima impressione. Stanze da letto disponibili non ce n'erano, quindi portati i nostri sacchi a pelo, li disponemmo allineati sul pavimento del salotto e ci addormentammo subito profondamente con l'apostolica benedizione di Sua Santità Pio X, la cui immagine oleografica pendeva da una delle pareti. A mezzogiorno, fatta un po' di colazione, riprendemmo il cammino raggiungendo in breve Tai di Cadore. Fu dato ordine di accamparsi e il reggimento piantò le tende sul piano della collina che costeggia la Cavallera. Sulle altre colline, per i prati e i declivi circostanti sorgevano gli attendamenti di reparti giunti prima di noi, e il terreno ancor libero andava rapidamente popolandosi per il continuo sopraggiungere di nuove truppe. Gli ufficiali ebbero la proibizione di trovare alloggio nelle case del paese, volendo i Comandanti Superiori fosse esercitata una diretta sorveglianza sui soldati onde evitare eventuali disordini, quindi i miei colleghi ed io occupammo una tenda stabilendo che il servizio di guardia notturno fra noi suddiviso in turni di due ore. Era già notte quando io, che per primo avevo fatto il mio tempo, lasciavo il mio posto ad un altro per recarmi alla mensa che il C.do di Btg. aveva alla meglio organizzata in una vicina osteria. Il rancio alla truppa era stato distribuito poco prima e i soldati stavano allora bivaccando raccolti in gruppi intorno ai fuochi che erano stati accesi dappertutto. Mai avevo potuto ammirare simile spettacolo. Le colline e i prati punteggiati da tutti quei fuochi che brillavano nel buio offrivano un colpo d'occhio veramente fantastico, e da quella moltitudine saliva e si diffondeva nell'aria un immenso continuo brusìo cui si univano nitriti, belati e muggiti di animali che a centinaia erravano senza custodia.

7 novembre

Sorse l'alba serena, senza una nube, il massiccio del Tudaio e le snelle guglie delle Marmarole andavano dorandosi con i primi raggi in una meravigliosa gradazione di colori. Alla luce del giorno appariva il vasto accampamento in tutto il suo pittoresco disordine. Qua e là fumavano ancora leggermente, prossimi a spegnersi, i fuochi della notte. I soldati giravano fra le tende portando secchie, gavette, pane, legna per allestire il primo rancio. Carri d'ogni specie continuavano a sfilare sulla strada con fracasso assordante. Automobili, camions, trattrici, motociclette passavano rombando a corsa moderata e costretti ad arrestarsi ogni qual tratto aspettando che si sgombrasse loro la via per poter proseguire. Poco lontano dal posto dove era attendata la mia compagnia, tra piante di pini e di abeti, alcuni armenti andavano strappando avidamente i pochi ciuffi d'erba ormai ingialliti. Dai tronchi pendevano spezzate le grosse corde che erano servite a circoscrivere uno dei più forniti parchi-buoi del Cadore. Tutto era distrutto e i pochi animali rimasti erano destinati ad andar rapidamente soggiacendo alla fame e al freddo. Povere bestie! Erano così tristi e disperati i loro muggiti! Sembrava chiamassero l'uomo a correre in loro aiuto e nessuno invece in quel momento poteva prendersene cura. Mi fece pena la vista di una mucca che, sfinita, continuava a lambire il suo vitellino, mentre quello cercava di trarre invano alimento dall'arida poppa materna. Ordinai a 4 uomini del mio plotone di abbattere senz'altro madre e figlio, tanto per abbreviare quella penosa agonia. Intanto parecchi soldati, impadronitisi di alcuni capi di bestiame, s'ingegnavano di adattare loro addosso delle rozze capezze e dei basti fatti con giunchi, con corde e con pezzi di stoffa, volendo servirsene, quasi fossero altrettanti muli, per someggiarvi gli zaini e le coperte. Lo spettacolo era veramente strano, e in breve quelle improvvisate e bizzarre salmerie furono in pieno assetto, pronte a mettersi in cammino. Verso le 3 pomeridiane giunse l'ordine di partenza e mezz'ora più tardi ci mettevamo in marcia. Discendendo la Cavallera, prima che una rapida svolta della strada togliesse la vista di Pieve di Cadore, mi fermai un istante e col cuore oppresso dissi addio al paese che mi aveva visto nascere e che fino all'ultimo avrei voluto difendere. Sull'alto del poggio, verso Pozzale, torreggiava il monumento di P.F.Calvi che la riconoscenza del Cadore volle eretto a perenne ricordo d'indomita virtù, e la bella figura che si staccava ardita nel cielo guardando alla sottostante vallata pareva attendere in atto di sfida il nemico che ancora una volta osava violare il suolo d'Italia. Quella sera dovevamo arrivare fino ad Ospitale, paesetto che si trova tra Perarolo e Longarone. Durante un alt fu dato ordine che ogni ufficiale facesse una rivista ai propri soldati per accertarsi se tutti avessero al completo la dotazione di cartucce. Ricordo che questo fatto diede luogo a svariate previsioni. Qualcuno diceva che presto si avrebbe dovuto combattere per aprirci il passo sfondando la cerchia del nemico che ci aveva già aggirati; altri dicevano che ci fermavamo in quei luoghi per formare la linea di resistenza che doveva arrestare l'avanzata austriaca. Chi ancora che dovevamo tornare indietro. I soldati si sbizzarrivano in mille diverse ipotesi; ognuno voleva dire la propria idea e discutevano fra loro a crocchi, approvando le parole di uno che la sapeva più lunga, facendo zittire quello che interrompeva contraddicendo, dando valore e forma di verità alle supposizioni più assurde, alle notizie più strampalate. Un energico "zaini in spalla" pose fine a tutte quelle chiacchiere e la colonna riprese il cammino. Verso le 20.30 giungevamo ad Ospitale e furono rizzate le tende in un prato che, sulla sinistra della strada, si estende fino alle rive del Piave. Qui, come a Tai, il solito servizio di guardia notturno. Frattanto il tempo, che fino allora era stato favorevole, si era oscurato; una nuvolaglia grigia pesava nell'aria foriera di pioggia. La notte passò senza alcun incidente.

8 novembre

Fui destato al mattino presto dallo sbatter della pioggia contro la tenda. Si doveva partire subito. Che senso di malinconia infondeva quella triste alba d'autunno! Aumentavano con il cattivo tempo i disagi e la fatica. Ancora prima di metterci in moto fummo in breve inzuppati d'acqua. I soldati uscivano di sotto le tende, dove già scorrevano dei rigagnoli, portando seco gli zaini fradici, i fucili gocciolanti; per terra un pantano attaccaticcio insozzava ed appesantiva le scarpe. Mentre stavamo ordinandoci, alcune donne si affacciavano alle finestre per vederci partire, qualche vecchio, uscito di casa, sotto l'enorme, variopinto ombrello, scambiava con i soldati brevi parole, stringeva la mano a qualcuno e poi si allontanava scuotendo il capo con aria mesta e rassegnata. La marcia che doveva portarci fino a Belluno si presentava invero assai disastrosa. Il tempo non accennava per nulla a rimettersi, anzi era prevedibile, come effettivamente avvenne, che la pioggia ci avrebbe accompagnati per tutti i 32 km che dovevamo percorrere. A Castellavazzo sostammo alcuni minuti. Con i colleghi cercai riparo in una casa dove la famiglia stava raccolta intorno al focolare. Gentilmente fummo accolti e ci fu fatto posto vicino alla fiamma per asciugarci un poco. Quelle persone, udendo che io parlavo il loro dialetto, mi chiesero di dove fossi e ricordo come si mostrarono cortesemente interessate a mio riguardo quando seppero pure che ero nipote del medico che per otto lustri aveva dedicato l'opera sua al bene di quella popolazione lasciando in tutti un'affettuosa e riconoscente memoria. Riprendemmo il cammino. La pioggia continuava; sulla strada era un succedersi di pozze e i profondi solchi scavati dalle ruote di pesanti veicoli si erano tramutati in veri e propri rigagnoli. Quando passavano in mezzo a noi camions, automobili o cavalli in corsa era un vero disastro! Il fango e l'acqua che venivano spruzzati a destra e a sinistra ci inzaccheravano da capo a piedi rendendoci irriconoscibili e i panni inzuppati ci pesavano addosso legando le membra, impacciando i movimenti. Avvicinandosi Longarone, chiesi il permesso al Capitano di lasciare la compagnia e proseguire un po' più sollecitamente desiderando recarmi a casa dei parenti per salutarli e chieder loro notizie della mia famiglia. Entrando in paese però mi avvidi che forse non vi avrei trovato più nessuno. Le case erano chiuse e silenziose e della popolazione civile solo qualche vecchia donna appariva nel vano della finestra. Difatti nessuno si fece vivo dopo che ebbi ripetutamente suonato alla porta di casa della zia Olimpia. Stavo per andarmene quando si aprì un'imposta dell'attigua abitazione e nella persona che vi si affacciava riconobbi una delle cugine Tasso che, avendomi visto, mi accennava di salire. Con lei erano i vecchi genitori. Il padre paralitico stava su di un seggiolone accanto alla finestra e guardava nella piazza con occhio fisso e imbambolato il continuo passaggio di truppe e carri. Volse lentamente il capo al mio entrare e non mi riconobbe quantunque moglie e figlia gli andassero ripetendo il mio nome. Seppi che gli altri parenti erano già partiti chi per Roma, chi per Firenze; della mia famiglia nessuna notizia. In quanto a loro avevano preferito, o per meglio dire, dovuto rimanere non potendo, per condizioni di salute, esporsi ai disagi di un lungo viaggio e ad un radicale mutamento di vita. Scambiammo assieme poche parole d'incoraggiamento, vuotai in fretta due bicchieri di Cordiale offertimi e li lasciai quando già gli ultimi uomini della mia cp. erano sfilati davanti alla casa. Il tempo si manteneva ostinatamente piovoso. Ben presto Longarone rimase alle nostre spalle. Passando per i paesi di Faè e Fortogna lo stesso spettacolo di abbandono e tristezza. Il giorno declinava rapidamente e quando ci avvicinavamo a Polpet era già notte. Giunti dove la strada d'Alemagna si biforca, conducendo a Ponte nelle Alpi da un lato e a Polpet dall'altro fummo fatti proseguire con più sollecitudine perché doveva saltare qualche tratto della vicina ferrovia. Difatti appena passato quel punto, alcune forti detonazioni si susseguirono a breve distanza lanciando in aria rotaie e traverse. L'opera di distruzione continuava accompagnando la nostra ritirata!