Fu un'azione assurda e inutile?
di Enrico Jahier
Ci furono azioni nella Grande Guerra 1915-1918 che apparvero ai comandi strategicamente interessanti e sicuramente realizzabili e poi, nel corso dell'esecuzione, si rivelarono del tutto inutili, sanguinose e inconcludenti. Si trattò per lo più di errati calcoli sulla possibilità di mantenere le posizioni conquistate ed ancor oggi esaltate e ricordate dalla pietà valligiana con croci, messe e cappelle, per l'imponenza di sacrifici che costarono e per le indiscutibili prove di eroismo cui diedero luogo. A questa categoria appartengono, ad esempio, la conquista del Monte Piana in Cadore e l'Ortigara nel Trentino. Ce ne furono altre che apparvero del tutto assurde, inutili, insostenibili, micidiali e poi per la pazienza, la fiducia, l'abilità di chi le attuò si rivelarono positive, quasi incruente e strategicamente determinanti. A queste ultime appartiene l'insediamento (e di conquista infatti non si può parlare) di reparti del battaglione territoriale "Val Chisone" su di una specie di gradino, di cornicione-insenatura, di "cengia", per adoperare il termine più appropriato1 alla terminologia dolomitica, sospesa approssimativamente alla metà della parete est del Piccolo Lagazuoi, uno dei pilastri dello sbarramento Passo Falzarego-Valparola, porta d'ingresso della strada delle Dolomiti in direzione Val Badia, obiettivo strategicamente importante e risolutivo. Il "Val Chisone" sembrava non aver rinunziato alla sua volontà di forzare in qualche modo quel munitissimo ma essenziale traguardo (forte "Tra i Sassi") di cui, come vedremo, aveva conquistato e non mantenuto - ma non per colpa sua - l'altro pilastro sinistro nel suo orientamento, nella funzione micidiale, nella foggia a becco di civetta, nel nome: Sasso di Stria (strega) sulla stregoneria del quale si era anche sbizzarrita la musa popolare: "Vittorio Emanuele s'è recato a visitar Cortina e i suoi soldati; avanti a balzare co' fu arrivato il generai i monti gli ha mostrato: Sasso di Stria! Facciamo dietro-front e andiamo via!"
La posizione di questi alpini, poco superstiziosi, ma appollaiati come falchi o poiane su un ballatoio roccioso inclinato verso lo strapiombo ed adatto tutt'al più al ricetto invernale di qualche camoscio, facilmente dominato dall'insidia nemica, apparve spesso a taluno non soltanto scomoda ed anticonformista, ma quasi grottesca, né immune da qualche battuta umorìstica o canzoncina romanesca del settore che talvolta fece rimare addirittura il nostro bel "Chisone" con "cojone". Tanto meno apparve, allora, del tutto chiara l'insistenza con la quale gli austrìaci cercarono con ogni mezzo di scacciare i territoriali del "Val Chisone" da quell'incomodo soggiorno. Lo si capì soltanto due anni dopo quando, grazie ad una tenzone quotidiana di mine e contromine, di scavi, di lancio di barilotti esplosivi d'ogni genere, un improvviso balzo sull'anticima (m 2.668) ce ne diede l'insperabile controllo ed ancor più quando, a guerra finita, i comandi austrìaci di quella zona rivelarono d'aver subito maggiori perdite per lo stillicidio quotidiano che dall'estremo angolo della cengia veniva inflitto ai sottostanti difensori di Valparola da una mitragliatrice ed un cannoncino che vi erano stati piazzati, che non per tutte le precedenti azioni offensive messe insieme.