Dal diario di Renzo Boccardi

1917

15 settembre

Dobbiamo lasciare l'accampamento di Pec di Pala, ove eravamo a riposo, per ritornare sulla Cengia del Lagazuoi, membra di roccia, volontà di roccia, muscoli di roccia: aspra, dolce, ferrigna Cengia. Antonioli segnala il pericolo di un'esplosione di mina e concomitanti attacchi e sollecita il comando di presidio per ottenere rinforzi: mi mandano lassù con quindici uomini. Alla Cengia non troviamo nulla di nuovo, ma in tutti una nervosa preoccupazione e un'ansia morbosa: si sono udite diverse cariche di mina, sempre più vicine e frequenti, sotto il "Sasso Bucato" e anche sotto "Port Arthur". Quota 2.350 ha cannoneggiato tutto il giorno e mezza distrutta la trinceretta: ora, il silenzio è completo: Ma 'sta notte? Continua il nervosismo: un disertore avrebbe detto che la Cengia deve saltare il 20 settembre; pare che Spimola - che è osservatore alla quota 2.350 - abbia segnalato feritoie e sbocchi di mine sopra l'Anfiteatro. Tazzer, che venne da noi la sera, esclude ogni pericolo.

16 Domenica

Vado con Cova a quota 2.668 per visitare i soldati minatori che furono già nel mio plotone. Gita interessantissima e non priva di emozioni. Visito anche la nostra grande camera di scoppio cui manca solo la "volata" d'arrotondamento della volta prima della carica di gelatina e dell'intasatura. Quando? E chi prima? Noi o loro?
Ore 10.18
Sono sceso da pochi minuti dalla quota 2.668, dove ho parlato col capitano Robecchi e con Tazzer. Incontro Bordoni sulla soglia della mensa e mi appresto a raccontargli quello che ho visto... Proprio in quel momento, un enorme scoppio che fa sobbalzare tutta la montagna ci assorda i timpani e ci rovescia entro la stanzetta della mensa, sbattendoci contro il tavolo in un diluvio di vetri infranti, sassi e polvere, travolti dalla copertura di legno spezzata. Il rombo dell'esplosione non si attenua, dilaga sulla Cengia come un convoglio ferroviario che si addentri rumoroso in una interminabile gallerìa: meno cupo ma più ampio, uno scroscio infernale ci da la sensazione che la montagna ci stia crollando addosso. All'interno della mensa, da cui non possiamo e neppure tentiamo d'uscire, si fa buio come di notte: un fitto polverone ci toglie quasi il respiro. Poi, l'atmosfera si schiarisce e compare al di là di un rovinìo di sassi e di terra una luce livida, giallastra, come vista attraverso un torrefaccio che dilavi. Dall'alto cadono masse più scure e veloci, che s'abbattono sulle rocce con tonfi cupi, schianti, lacerazioni, senza un grido da parte degli uomini: si ode soltanto un rumore sordo e continuo. Quanto è durato? Un istante od un'eternità? Io e Bordoni siamo come paralizzati, ma ben coscienti di quanto sta avvenendo: abbiamo avuto solo un pensiero, d'una lucidità spieiata... siamo fritti, la cengia è saltata in aria. Siamo comunque ancora vivi e per uno strano fenomeno nervoso - di cui ci rendemmo conto solo in seguito - non ci preoccupammo tanto del pericolo e detto scoppio avvenuto, ma solo Bordoni della sua baracchetta sconvolta e io alla stupidità del caso che mi aveva condotto in linea proprio in tale frangente. Appena l'oscurità ce lo permise e quella luce limacciosa si fece un poco più vivida, ci precipitammo fuori per vedere se la baracca dell'ufficiale medico, dove dormiva Sganzetta, fosse ancora in piedi e ci fossero morti o feriti. La posizione è completamente sconvolta, ma gli uomini sono incolumi, a eccezione di qualche contuso: volti pallidi e flaccidi, ma integri. Pomilio vorrebbe correre al "Sasso Bucato" per controllare il destino dei suoi uomini: che sarà accaduto lassù? Ed a "Port Arthur"! La nostra prima impressione è che la mina sia scoppiata proprio in quel punto: ci sarà ancora il "Sasso"? Ed il "Dente"? forse gli austriaci, approfittando dello scompiglio, dell'isolamento e forse anche dell'annientamento del presidio, stanno per calare giù dall'"Anfiteatro". Ma al "Sasso Bucato" non si può andare: una gragnuola fittissima di detriti continua a cadere tutto attorno e ogni traccia di camminamento è scomparsa, sepolta sotto montagne franose di sassi e schiacciata da profonde voragini. Cosa sarà successo in galleria? Là dentro ci devono essere minatori e soldati: i miei soldati! Siamo ormai tutti fuori a ricercare i dispersi con l'affanno nel cuore, mentre altri si dispongono a resistere al prevedibile attacco: Antonioli, Cavallari, Manca e Baldacchini, raggiungono i loro pezzi e sparano come possono per far sentire al nemico che siamo ancora vivi. Si aspettavano la vocetta chioccia del "Garibaldino" in quota? Tutte le artiglierie, dalle postazioni 2.350 e 2.010 e dalle Cinque Torri, battono ora la quota nemica e l'"Anfiteatro", causando violenti scrosci di sassi. Le nostre mitragliatrici cominciano a sgranare raffiche, subito imitate dall'abbaiare rabbioso di quelle austriache. Sulla mensa esplode un ordigno a alto potenziale: veniamo scagliati all'interno della costruzione e gettati a terra. Qualcuno urla: i gas! Chi ha dato l'allarme? Succede il finimondo: quelli che posseggono le maschere antigas se le applicano immediatamente al volto, mentre gli altri si portano alla bocca fazzoletti o stracci imbevuti d'acqua. Ma si tratta d'un falso allarme: non sono gas, ma solo esalazioni venefiche causate dalle esplosioni. I soldati si raggruppano poco a poco in squadre: sanno quel che debbono fare. E gli uomini che si trovano nella galleria? Non sappiamo ancora nulla di quel che può essere successo. Anche Robecchi e Tazzer s'informano sulla sorte di quei soldati e dei macchinari che avevano con loro. Poi, finalmente, un uomo irriconoscibile uscì da uno scarico della galleria e portò la buona notizia: erano tutti salvi! Più tardi, una bombarda austriaca lontana ci prese di mira, seguita quasi subito da un'altra più vicina, ma sotto la furia delle nostre artiglierie ogni velleità d'attacco da parte nemica fu sedata, perché non continuò a lungo il tiro delle due bombarde e neppure il cecchinamento con il quale si cercava d'impedire i nostri movimenti in direzione del "Sasso Bucato" e di "Pori Arthur". Allo spuntare del sole, i soldati presero a cantare con animo lieto canzoni di guerra. Mangiamo qualche boccone, con molto terriccio e largo condimento delle più strambe congetture: perché la mina venne fatta esplodere di giorno e non di notte? Calcolo errato che rovinò una sorpresa che nell'oscurità ci sarebbe stata fatale, oppure deliberato calcolo par causare una strage maggiore con gli uomini intenti al lavoro? Proposito di distruggere le nostre posizioni, per attaccarle con maggior successo? Contromina difensiva per bloccare il nostro scavo, che non doveva essere a loro ignoto, o scoppio causale e prematuro? Tante ipotesi, molte verità e infinite risate sullo scampato pericolo e sul colossale insuccesso: volevano farci fare la fine del topo, ma riuscirono a malapena a produrre qualche bernoccolo sulle teste meno dure e meno accorte. L'alpino Cadario ci ammonisce con la sua solita pittoresca brutalità: "Mi, ho sentii i tugnit a lavurà ancamò e ghe sarà presi un'autra mina, che ghe darà el destriga de bun a la cengia". Verrebbe voglia di rispondergli "Crepi l'astrologo", ma il ragazzo è capace, con quei suoi occhi furbi che vedono lontano, di sapere e capire più di Tazzer con il suo geofono d'ascolto.

15 ottobre

Plenilunio: silenzio pieno d'opere caute e nascoste. Luci, su per le coste nere dei monti: Falzarego, Berrino, Cengia. Più indietro, meteore di razzi. Alle mie spalle una lunga fila di soldati curvi sotto i graticci: processione votiva per il dio della Guerra. Respirano forte sotto il peso e all'alt si accasciano tutti sui graticci come sul giaciglio. Le nostre mitragliatrici gracchiano nel silenzio come raganelle sperdute nella neve, quelle austrìache abbaiano rauche.

21 ottobre.

Azioni austriache sul Forame e sul Sief: attacchi respinti. I miei soldati, sempre a caccia di notizie dai conducenti, come tafani sui muli, parlano di truppe tedesche mescolate a quelle austriache.

24 ottobre.

I tedeschi ci sono davvero, ma i miei ragazzi se la ridono. Bene: ridiamo con loro! Altra azione infruttuosa su Monte Piana.

26 ottobre.

Alla Cengia c'è ancora puzza di mina e nei comandi odore di mistero che non mi piace. A prima sera concerto di mitragliatrici e artiglierìe: razzi che s'accendono come immense corolle bianche miracolosamente fiorite nella notte... Un altro allarme alla cengia: mine, rumori di motori, di esplosioni sotto "Port Arthur". Si son sentiti gli austrìaci urlare: "Attento italiano... sasso lavora".

27 ottobre.

Ci annunciano che arrivano in Italia truppe francesi. Perché? Si teme? A Monte Nero le cose non vanno dunque come si sperava? Trovo il piccolo Dal Molin che piange: gli hanno detto che i nostri si ritirano su Cividale e lui è di un paesino accanto. Consolo il povero soldato e mi sfogo contro chi sparge simili notizie che non possono essere che false, ma mi accorgo che il mio plotone - la gran parte di veneti e friulani - è ostile soprattutto per paura che si celi loro la verità. Non vogliono credere che noi ne sappiamo più di loro e per paura della verità credono più fortemente al dubbio e s'attaccano angosciati all'idea di un disastro.

28 domenica.

Furia di vento e di neve. Al comando si temono cattive notizie: Cividale occupata. Il nome ci gela più del freddo crepuscolo, ma al telefono sentiamo parlare di Caporetto ripresa e di migliaia di prigionieri fatti dai nostri. Quale notizia sarà vera? Abbiamo freddo: discutendo, serriamo i denti come per dar più forza alle anime che laggiù reggono l'urto!... I denti si disserrano e l'aria va giù floscia. La ritirata continua già oltre Cividale: la Seconda Armata è in fuga. La Patria muore? Perché?

29 ottobre.

I soldati mi spaventano: ma non capiscono a cosa andiamo incontro? Non sentono il perìcolo spaventoso? Mi accorgo che troppi pensano che solo così la guerra potrà finire. Nervosismo: ordini, contrordini, anima alle stelle, cuore infondo all'abisso dell'angoscia. Colpi da parare, i più forti: Cividale occupata, Udine sgombrata, la Terza Armata al Tagliamento, il Cadore da abbandonare. Abbandonare il nostro Cadore? Ma è la fine, dunque? Dal Raggruppamento ordinano di tenersi pronti e il nostro maggiore Baudino piangeva e tremava d'angoscia nel comunicarcelo a rapporto.

30 ottobre.

Arrivano gli ordini di sgombero, ma nessuna altra notizia. Sentiamo un vuoto pauroso attorno a noi. Dove saranno ora? Resistiamo? E il paese, come ha accolto la disfatta? La posta ci porta ancora lettere ignare, piene di serenità e di speranza... Invece... Cortina è già mezza evacuata. Notizie buone: un attacco in Val Visdende respinto, l'offensiva arginata, ventimila prigionieri fatti dai nostri. Ma intanto noi smontiamo i motori al Lagazuoi, i pezzi dell'Averau e alle Tre [Cinque, ndr] Torri.

31 ottobre.

Febbre di lavoro. Le artiglierie pesanti partiranno 'sta notte, rimarrà solo Scarampi con la "Montagna". L'idea che con noi rimane l'indiavolato Scarampi mette di buonumore i soldati: li farà ballare gli austriaci e i tedeschi, coi suoi confetti. Notizie migliori: Cividale ancora nostra, si resiste... Ma perché allora, i 210 e i 149 di Passo Hotel sono trainati sulla strada per lo sgombero? Chi ci tormenta con questa alternanza di speranze e angosce? Si deve partire: per ora ripiegando sulla linea gialla del Pelmo-Civetta, poi... Partiremo noi, prima, per proteggere la ritirata degli altri reparti in un secondo tempo. Povera cengia nostra, aspra e bella, che abbandoneremo così male!

1 novembre.

Ho visitato la linea di sbarramento del "Pallanza" da Vallon Tofana, giù sino alla Strada delle Dolomiti: la 282ª difenderà lo sbocco di Fontana Negra e le toccherà, occorrendo, il primo contatto col nemico. Al ritorno nuovi ordini: altro che linea gialla! Si dovrà forse partire subito, come possibile. Ma li abbiamo dunque così alle reni e siamo già tanto sfiduciati da non ritenere nemmeno più possibile la difesa? A notte si parla dipartenza; è arrivata una riservatissima personale al Comando: notizia da conducenti? Aria di mistero, ma ormai la cosa è chiara: si parte. E infatti si parte, fra poche ore. All'alba, zaino in spalla, poco bagaglio a soma, niente traini, niente sgombero razionale: non c'è più tempo. Distruggere quel che si può senza scoppi e incendi, portare con sé il maggior numero di cartucce e di bombe a mano. Questa volta davvero, Cadore addio. Scrivo di fretta l'ultima lettera che odorerà di abete: arriverà? Quando? Mi dispongo a controllare gli ultimi preparativi, minuto per minuto, tristezza goccia a goccia, la mia ultima notte cadorina, di neve e di smarrimento.