Finalmente ci siamo

di Silvio Padovani

Così esclamava l'aspirante medico Gregorini, un giovanotto di appena ventanni, arrivando a Passo Falzarego in una sera d'aprile del 1917, ritenendosi giunto in linea. Si era servito, in 24 ore di viaggio, di ogni mezzo di locomozione (dal treno al mulo, dall'auto alla slitta, dalla carretta di battaglione al cavallo di S. Francesco) e ora era proprio desideroso di mettersi un po' tranquillo. Vana illusione e amara constatazione! Non aveva fatto i conti con la teleferica e non ricordava che gli alpini - ai quali era stato aggregato - sono come le aquile: fanno il nido molto in alto. Stanco, insonnolito, con certi brividi caratteristici della prima impressione del fronte, stava guardando un gruppo di alpini che inchiodava delle tavole.
- Vedelo che disastro, sior tenente - gli dice il caporale addetto ai lavori, dopo averlo salutato.
- Vedo, ma cos'è successo?
- Stemo riparando el barachin de la teleferica, perché un carelo stamatina el se ga sfondà.
Dopo qualche minuto di silenzio e di meditazione, l'aspirante riprende:
- Sentite, caporale, Cima Bòs dovrebbe essere qui vicina e ci si potrebbe arrivare anche a piedi!
- Sì, sior tenente, se poi, ma no ghe lo consiglio, perché el sentier el ze bruto de giorno, figurarse de note e spesialmente per uno - el scusa salo - non pratico del posto e con un per de scarpe come le sue. Ma el gàbia un pò de pazienza e ghe sarà subito al collaudo.
Non si sa se il caporale intendesse, con questa parola, riferirsi al carrello o all'ufficiale. Passava intanto per l'aria qualche sibilo di pallottola randagia, proveniente dal Piccolo Lagazuoi ad avvertire che anche lassù si vegliava. Gregorini passeggiava su e giù e ogni tanto rimaneva estatico dinanzi a quelle incombenti pareti paurose, a quei canaloni tenebrosi, chiazzati da qualche tardiva placca nevosa, a quei pinnacoli dritti e lisci come fusi e illuminati ogni tanto dai razzi indagatori e si stupiva che là in alto, così in alto, stessero di casa gli alpini e vi facessero per di più la guerra.
- Semo pronti, sior tenente, sel voia comodarse.
Aiutato da due alpini, si mette per benino seduto sul fondo del carrello, ma il caporale gli fa osservare che sarà meglio se si mette lungo disteso per evitare qualche "sucada" (in italiano: zuccata) passando sotto i cavalletti. Vicino al viaggiatore si accovacciano due pellacce e la teleferica parte. La salita normalmente durava un quarto d'ora, ma quella notte - destino! - durò molto di più: raggiunta una discreta quota, si levò un'inopportuna brezza che faceva graziosamente dondolare il carrello e come se questo non bastasse, giunti nella campata più lunga e più aderente al canalone, la teleferica, quasi per stanchezza, si fermò.
- Siamo arrivati?
- No, sior tenente, semo a metà strada e par che ghe sia un guasto.
La teleferica rimase ferma il tempo più che necessario per far passare nella testa del nostro viaggiatore tutta la gamma dei più brutti pensieri; ma del resto, poveraccio, non aveva tutti i torti: sotto ... il vuoto, sopra le stelle, a destra, a sinistra e a tergo la nuda parete, davanti ... il vuoto ...
- Non ci sarà mica perìcolo che si sganci?
- No - risposero in coro i due alpini - speremo piutosto che i fasa presto, perché ghe ze un serto frescheto e pol capitar anca un ta-pum che el ne fasa un buso nela pansa, come a quele pagnoche de ieri.
Il povero martire cominciava veramente a sentirsi a disagio, quando la teleferica, con uno strappo, riprese l'ascesa. Dopo poco si passò vicino al carrello di ritorno, carico di due feriti e poco mancò che con l'oscillazione prodotta dal vento, non succedesse uno scontro e non si dovessero lamentare dei feriti anche da parte nostra.
Dopo un'ora dalla partenza si arrivò in cima e il nostro medico, riprendendo uno a uno i tenui fili di speranza che aveva abbandonati salendo e togliendosi da quel letto di Procuste, potè infine sospirosamente esclamare: "Signore, vi ringrazio, ma non credevo che gli alpini fossero più vicini a Voi, che agli uomini". E si chinò a baciare la terra come Colombo!