I fucilieri della brigata Calabria
di Ugo Cappuccino
I fucilieri della brigata "Calabria", investite le posizioni del Forte La Corte ormai smantellato, ma ridotto ad un insidioso nido di mitragliatrici, cacciatisi in mezzo all'intricato labirinto di reticolati e di appostamenti, respinsero il nemico fino all'estrema Valle di Livinallongo e s'inerpicarono per le rocciose pendici del Sief sul rovescio del Col di Lana.
Il IV battaglione del 60° fanteria, rinforzato dalla 9ª compagnia, procedendo sotto i boschi, ai loro margini e per le radure, puntò decisamente sul fortilizio del Dente del Sief. Per le pietraie e canaloni ghiaiosi giunse fin sotto la posizione nemica, che si presentò improvvisamente come una muraglia inaccessibile di rocce acuminate. Le nostre artiglierie non sparavano più. Di lì a poco tacquero anche quelle nemiche, e alle luci del tramonto incominciò incessante il crepitio delle mitragliatrici e di una fitta fucileria. I reparti avevano subito durante l'avvicinamento forti perdite, ma la fase più tragica dell'avanzata si svolse all'interno di un ridotto ghiaioso, in una anfrattuosità del Dente dove le pallottole sibilavano con l'intensità della gragnuola.
Lo studente volontario Ricca ebbe un braccio trapassato da una pallottola; si fasciò strettamente l'arto e con la foga dei suoi diciotto anni tornò all'assalto. Una scarica lo colpì alla testa: girò su se stesso e ruzzolò giù per il vallone. Con lui, vicino e sopra di lui, caddero molti altri valorosi. Il sottotenente Giuseppe Barbieri, alla testa del 5° plotone della 15ª compagnia, giunse per primo alla sommità del costone. Mentre ne scavalcava la cresta fu colpito da una raffica di pallottole alle gambe. Prima di cadere incitò ancora i soldati con un grido che dominò il frastuono infernale: "Avanti ragazzi, per l'Italia e per il re!".
Il reparto continuò la sua marcia: in un momento il costone brulicò di fanti che, sospingendosi gli uni con gli altri, inerpicandosi, aggrappandosi ai pochi arbusti disseminati lungo il pendio, cacciando le punte dei piedi nelle più piccole anfrattuosità del terreno, e le unghie sulle sporgenze della roccia, la superarono e si distesero sulla cresta.
Alla sommità del Dente, davanti ad una radura scoperta e verdeggiante, il nemico aveva innalzato un'abbattuta di abeti che intricavano i loro rami sfrondati, come gli spini enormi di una siepe gigantesca. Dietro, sui tronchi segati a un paio di metri dal suolo, aveva aggrovigliato una rete fittissima di grosso filo spinato. Protetto da questi ripari, celato dietro trincee che, per mezzo di camminamenti, comunicavano con il fortilizio, ci accolse con raffiche di mitragliatrici, scariche di fucileria e lancio di bombe a mano.
Scoperti e battuti da più parti i fucilieri della brigata "Calabria" fra i quali si trovavano parecchi volontari garibaldini, ingaggiarono sulla cresta e ai margini della radura una lotta impari e sanguinosa. La distanza, ormai brevissima, permetteva alle bombe di ruzzolare insidiosamente sul terreno, in forte declivio, e di raggiungere gli assalitori sulla cresta e oltre, ai piedi del costone, dove molte finivano per precipitare.
Don Angelo Cerbara, l'eroico cappellano del 60° fanteria che con una piccola croce in una mano e una pistola nell'altra seguiva l'azione incoraggiando e combattendo, dando con la prima l'assoluzione ai moribondi e minacciando con l'altra di morte i nemici, aveva trascinato al riparo di un costone un povero ferito al quale si apprestava a somministrare gli ultimi conforti. Si era appena inginocchiato presso il morente, adagiato ai piedi della roccia, quando una bomba nemica, precipitata dalla cresta, lo raggiunge scoppiandogli a pochi palmi dalla faccia. Fu visto guizzare in piedi, annaspare l'aria con le mani e abbattersi moribondo presso il soldato che stava soccorrendo.
I fanti s'inoltrarono fra i rami dell'abbattuta, e schiantandoli con la pressione dei piedi e rimuovendone i tronchi con gli sforzi delle spalle e delle braccia, si aprirono dei piccoli varchi. I reticolati, però, erano intatti e resistentissimi; pensare di tagliarli con le piccole pinze di cui eravamo dotati sarebbe stato follia. Sostarono un momento ed entrò in azione una batteria da montagna, ma i proiettili, che passavano sulla cresta proprio rasente alle loro spalle, scoppiavano al di là dei reticolati ed oltre le trincee nemiche. Perciò anche questo aiuto, dal quale speravamo almeno la distruzione parziale di tanti impedimenti, mancò all'effetto. Si misero in azione i tubi di gelatina. A tale proposito ricorda il tenente Francesco Cipollini, comandante la 15ª compagnia:
"La notte è buia e freddissima; noi siamo aggrappati al reticolato nemico. L'esplosione dei tubi di gelatina per aprirci un varco all'assalto non ha sortito gli effetti sperati, bisogna ripetere il tentativo, pericolosissimo perché il nemico vigila e spara ad ogni stormire di fronda.
Anche la seconda volta gli effetti non soddisfano: più d'uno dei soldati incaricati di questa impresa è rimasto ucciso fra i reticolati.
Chi comandare ancora? Il tenente Cipollini si rivolge al soldato Natale Pirovano, il quale però è titubante... 'Perché?' risponde con la sua balbuzie, che spesso fa ridere i compagni, nel suo dialetto lombardo 'Sun già... giamo andaa u...na volta e l'è andada ben... Go de andaa u... un'altra volta?'
L'ufficiale è commosso; lo guarda fisso negli occhi e gli dice, con tono rassicurante: 'Va' Pirovano, andrà bene!'. E l'altro, risoluto, risponde: 'Se m...m... me lo diss lù, siur t... te... tenent 'e mi vo!'. E ancora una volta la fortuna lo assiste!".
Altri soldati, spinti dagli ordini, tentarono ancora di superare gli ostacoli, ma non riuscirono che a lasciare nuovi morti davanti ai reticolati e in mezzo all'intrico dei rami dell'abbattuta, dalla quale era difficile e penoso tirare fuori i numerosi feriti.
La notte aveva dato un po' di tregua alla fucileria ch'era quasi cessata, ma bisognava guardarsi dalle bombe che, per la nostra posizione, ci raggiungevano insidiose e con facilità facendo nuove vittime. Ci demmo, con febbrile attività, all'adattamento dei mezzi di difesa che si preparavano scavando il terreno e riempiendone con il terriccio i sacchetti a terra, che si sovrapponevano al margine delle piccole trincee. Alla sommità della roccia non c'era da fare di meglio che rimanere aggrappati e riparati dietro i suoi spuntoni.
Il sottotenente Costantini di Orvieto, colpito a morte, era rimasto impigliato sui rami dell'abbattuta che aveva cercato di scavalcare. Il maggiore Alcioni, sebbene ferito, si portò fin sopra la posizione, e dopo avere tenuto consiglio con gli ufficiali, diede l'ordine che ne venisse recuperato il cadavere. Arriva un soldato con una coperta, se ne cercano altri due per aiutarlo... andiamo! Ci inoltriamo nell'abbattuta, fin sotto il cadavere. Ha ricevuto un colpo proprio fra le ciglia ed è caduto riverso in cima ai rami fra i quali è rimasto impigliato con le ginocchia ripiegate e rattrappite e le braccia spalancate. A pochi metri da lui, e un po' più in basso, giace anche il cadavere di un soldato. Cerchiamo di districare il povero morto che è già rigido e con non poca fatica riusciamo a calarlo a terra. Mentre ci sforziamo di adagiarlo nella coperta, che il vento impetuoso non ci consente di mantenere distesa sul ciglio del costone, il cadavere ci sfugge di mano e scivola lungo un ripido valloncello ghiaioso. Lo seguiamo con gli occhi per un attimo, finché scompare nell'oscurità. Ci giunge solo il rumore del povero corpo rotolante sui sassi. Ci lasciamo andare per la china dietro a lui e lo raggiungiamo ad una ventina di metri più in basso, a ridosso di una roccia. Aiuto i compagni ad avvolgerlo nella coperta e lo affido a loro perché lo portino dentro le nostre linee.
Sapevo che girando il costone sarei ritornato presso i nostri posti e perciò m'inoltrai per un sentiero che, data l'oscurità, non riuscivo a riconoscere. Ma, appena percorso il primo tratto, mi accorsi che diventava impraticabile e, in qualche punto, appena tracciato. Un piede messo in fallo mi fece scivolare lungo la parete e solo per un miracolo di equilibrio riuscii a raddrizzarmi e a procedere di un passo. Però i detriti franati, con il loro sordo precipitare, mi fecero accorto che mi ero avventurato per una delle tante cornici che striano in senso orizzontale le pareti e le rocce della montagna. Per il franamento, il retrocedere era pericoloso quanto l'avanzare.
Mi passai il fucile, che tenevo ad armacollo, davanti al petto e con le spalle appoggiate alla roccia, alla quale cercavo di tenermi aderente più che potevo, tastando la parete con le mani e provando con i piedi il sentiero, in lotta con il vento impetuoso, seguitai il cammino sull'orlo dell'abisso del quale l'oscurità mi risparmiava di considerare l'altezza, e di subirne le vertigini. Finalmente arrivai alla parte opposta, in mezzo ai soldati del mio battaglione.
Riferii l'esito della missione e dell'altro cadavere che era rimasto lassù. Altri compagni partirono immediatamente per il suo recupero. Il giorno seguente, senza migliore esito, furono fatti nuovi tentativi, ma non riuscimmo che a distenderci un po' meglio sui margini del Dente di Sief e a spingerci a pochi metri da una piccola trincea presidiata da Kaiserjäger. Nel complesso la nostra posizione non fu di molto migliorata, perché ci muovevamo intorno alla cresta come sopra la cornice di un altissimo fabbricato, con il vuoto dietro le nostre spalle, per cui era più facile precipitare che discendere. Nella previsione di un possibile contrattacco, tenevamo le baionette inastate e facevamo un fuoco incessante di fucileria, al quale i nemici rispondevano con calma ma con impeccabile precisione, tanto che le pallottole, quando non colpivano il bersaglio, ci fischiavano alle orecchie, o deviavano, mugolando, dalle piccole creste dietro le quali ci tenevamo riparati.
Alla sera fu ordinato un ripiegamento e perciò cominciammo a discendere a scaglioni con ogni precauzione e con circospezione, per non destare sospetti nel nemico e per non fracassarci le ossa. Per discendere dalla cresta, dove alcuni di noi erano annidati, fummo obbligati a scavalcare il cadavere di un nostro compagno, che giaceva disteso dentro una selletta, fra due spuntoni, con il capo reclinato sull'otturatore del fucile in atteggiamento di sparo, così, com'era stato colpito.
Raggiungemmo i margini del bosco sottostante nel quale incominciammo a scavare alcune tane ai piedi degli alberi, e in qualche parte ad apprestare trincee. Altri reparti del 59° e del 92° fanteria tentarono nei giorni seguenti l'espugnazione del fortilizio. Anche noi fummo spinti ripetutamente sulla cresta ma tutto fu vano.
Finalmente, dopo una dozzina di giorni di lotte senza tregua, in una buia notte ci ritirammo da quella posizione che ci era costata tante fatiche e tanto sangue. Solo rimase sulla cresta, disteso nella selletta scavata nella roccia, il "Cacciatore" del Sief: fucile fra le mani, la fronte appoggiata sull'otturatore nella posizione di sparo, cosi com'era stato colpito e, con la sua minaccia, coprì egli solo la nostra ritirata.
All'alba eravamo in fondo alla valle del Cordevole dove fummo sorpresi da un violentissimo temporale che contribuì a rendere più sparso l'ordine del nostro ripiegamento [...]. Un paio di giorni di rancio caldo e di riposo ridiedero animo ai nostri reparti. Gli ufficiali ed i furieri fecero ripetuti appelli per completare le liste delle perdite delle compagnie. La frase burocratica era: "Morto e soddisfatto a tutt'oggi". E con questa annotazione sul giornale di contabilità il fante caduto in combattimento chiudeva la sua partita amministrativa con la Patria.