Il tremendo Montucolo Austriaco
(del s.ten. Aldo Barbaro)
Il martedì dopo Pasqua ci giunge l'ordine di partire per le posizioni del Montucolo, ove quattro giorni or sono c'è stata l'accanita battaglia che ci ha permesso di prendere possesso delle posizioni austriache munitissime. Il posto gode pessima fama tra i fanti perché la nostra linea si trova abbarbicata alle rocce, completamente sotto il tiro degli austriaci, soprastanti, cosicché le perdite sono ogni giorno notevoli.
Anche qui l'anno scorso, di novembre, i nostri riuscirono ad andare innanzi, ma conquistata la posizione nemica ne trovarono a poche decine di metri un'altra ancor meglio organizzata, che è poi quella conquistata il 21 aprile. Ed anche stavolta il nemico ha trovato modo di sistemarsi nuovamente un poco più indietro. Curiosa questa guerra in alta montagna! Dopo che hai fatto un'avanzata e battuto l'avversario occupando le sue trincee ed hai seminato il terreno di morti e di feriti, ti ritrovi quasi sempre nella stessa situazione di prima...
Finalmente arrivo al Montucolo! Penetro nella parte centrale delle posizioni attraverso un varco aperto fra i sacchetti di una specie di ridottino. Mi sporgo un attimo dal parapetto e guardo all'intorno: è una gran brutta posizione codesta ed hanno ragione i fanti e quelli del genio a dirne tanto male.
Dietro la ridotta, a parecchi metri sottoterra, c'è un'amplissima ed oscura caverna, grande come la piazza di un villaggio; vi sono allogati gli ufficiali ed i soldati con il posto di medicazione ed il deposito dei viveri. La vita sotterranea di questi abitatori trogloditici si svolge alla luce fioca e fumosa delle candele e delle lanterne. La galleria, prima della nostra avanzata, era austriaca; cosi fu necessario riparare l'entrata, che è volta in direzione del nemico, con un piccolo fortilizio blindato. E poiché il terreno è aperto a qualsiasi insidia degli avversari e le vedette hanno una consegna assai severa, si corre il rischio, avvicinando visi specie nelle ore notturne, di essere freddati con un colpo di fucile se non si conosce la parola d'ordine o non la si pronuncia bene. La comunicazione tra la grande galleria e la ridotta è quanto mai suggestiva: uno strettissimo taglio orizzontale nella roccia ove sembra che soltanto un gatto possa entrare. Eppure vi passano, magari con mille fatiche, anche gli uomini infagottati nei pesanti pastrani, facendosi piccoli piccoli e strisciando sul terreno. Quando mi sono trovato dinanzi a quest'apertura ho disperato per un momento di potervi penetrare. Ma pensando che tanti altri prima di me c'erano entrati e ne erano usciti, mi ci sono messo dì buzzo buono ed alla fine sono riuscito a passare. In fondo all'interminabile grotta, dopo molto cercare nel semibuio, ho trovato infine la mia compagnia, accovacciata a terra, in attesa del turno per inviare le vedette alle trincee avanzate. Qui dentro tutti parlano sottovoce. Chissà perché? Certo non è per il timore di essere sentiti dal nemico... Ma deve essere il pauroso incombere delle rocce sul capo ed anche la quasi completa oscurità dell'ambiente a mettere in soggezione gli abitanti di questo strano agglomerato sotterraneo.
In questa sterminata galleria sono anche ospitati i soldati della 62ª compagnia zappatori, che dopo il brillamento della mina e la conquista del Montucolo austriaco hanno dato il cambio all'8ª. La comanda il capitano Arturo Solimene ed ha un gruppetto di baldi ufficiali tra cui il simpaticissimo scrittore e giornalista Adone Nosari che ha il grado di tenente, i tenenti Raffaele Passaretti, Carlo Alfonso Todini, Luigi Filippini, Giuseppe Bodini e l'aspirante Giulio Spadaccini. Questo reparto che è giunto in zona di operazioni alla fine dello scorso marzo, la notte del brillamento della mina era stato trasferito di rincalzo sulle pendici del Col di Lana; nei giorni precedenti aveva compiuto opere di fortificazione lungo il Davedino ed ora i suoi soldati sono sparpagliati tra il Montucolo ed il Sief ove hanno compiuto la sistemazione delle posizioni conquistate negli ultimi tempi, comprese quelle ex austriache di Cima Lana.
Trovo in un angolo una barella lasciata qui dai portaferiti e mi ci adagio sopra a riposarmi. Forse prima di me c'è stato il corpo sanguinante di un ferito o la salma di un caduto: ma ciò non mi preoccupa. Più tardi quando anche al di fuori è sopravvenuta la notte, il comandante mi accompagna alla trincea avanzata ove dovrò montare di guardia e che ha un'importanza difensiva grandissima perché se il nemico se ne impadronisse, potrebbe aggirare con la massima facilità la posizione principale e catturare, come tanti leprotti in una tana, i soldati del grosso contingente ospitato nella cittadina sotterranea. Per arrivare alla trincea occorre sorpassare una cinquantina di metri completamente allo scoperto. Li superiamo, con un certo "spaghetto", saltando veloci e silenziosi da un masso all'altro. Davanti e sopra ci sono i nemici a sorvegliare con tanto d'occhi aperti; ma per fortuna non ci hanno visti e tutto è andato bene. Quando giungo alla mèta mi sembra che un grave incubo sia passato. Guardo la posizione che era il più formidabile elemento del Montucolo austriaco: si inerpica su un costoncino fra i cui macigni sono incastrati parecchi sacchetti a terra ed ha una copertura di spessi lastroni di acciaio che servono a difenderla dalle bombe che frequentemente cadono dalle propaggini del Sief ancora in mano degli austriaci. Ma qualche bomba, non si sa come, è riuscita nei giorni scorsi a penetrare nella trincea seminando vittime.
Comprendo ora come i fanti, quando ricevono l'ordine di recarvisi, si sentano accapponare la pelle pensando alle ore che dovranno passare fra quelle rocce sperdute, completamente isolate e prive di qualsiasi contatto con i compagni, che non sia quel tratto di terreno scoperto che ho percorso e che è un miracolo se lo si riesce a superare senza danno!
Il comandante, dopo avere ispezionato il piccolo presidio, se ne va; vedo per un momento la macchia nera del suo corpo spostarsi rapidamente da un punto all'altro, poi più nulla. Così sono rimasto solo. Comincia una nottata insonne, piena di emozioni e popolata di paurosi fantasmi aggirantisi fra le rocce ed i reticolati. Ad ogni momento mi sembra di udire il rauco "urrah" degli austriaci attaccanti, fra lo schianto delle bombe a mano e le raffiche delle mitragliatrici. Ma è la fantasia sovraeccitata che lavora. Finalmente, quando Dio vuole, questo martirio finisce; è sopraggiunto il giorno e mi è consentito di andare un poco a dormire in una specie di baracchetta fatta di quattro tavole ammuffite appoggiate ad un anfratto della roccia.
La mattinata passa senza incidenti. Poiché è impossibile far pervenire fin qui il rancio, mangiamo la carne delle scatolette che fa da companatico alle pagnotte che il fante si porta sempre dietro e non abbandonerebbe a nessun costo, anche se ci dovesse rimettere la pelle.
Ma nelle prime ore del pomeriggio, mentre sto osservando da una feritoia l'ammasso arido e brullo di rocce che si stende davanti a noi, scorgo il caporale - che comanda un piccolo posto d'osservazione situato dietro un macigno ad una ventina di metri davanti a me e a pochissima distanza dal nemico - fare grandi gesti nella nostra direzione. Non si comprende ciò che vuole; deve però trattarsi di cosa grave e urgente se egli insiste ad agitare le braccia per indicare che qualcuno vada da lui, evidentemente per comunicargli una notizia importante. Ma non è cosi semplice portarsi al posto avanzato perché il terreno è completamente scoperto e c'è un maledetto "cecchino" in agguato dietro un masso che è pronto a freddare chiunque osi sporgere il capo dal parapetto del trincerone italiano. Pure è necessario raggiungere la pattuglia. Ci vuole un gesto d'audacia, che però assai difficilmente permetterà di conseguire l'intento. Decido di tentare io stesso la disperata impresa!
Morabito, il sergente del mio reparto, si offre insistentemente d'accompagnarmi ed esce per primo saltando risolutamente dalla trincea. In quell'attimo scatta il "ta-pum" del "cecchino", ma l'ardimentoso sottufficiale ha già fatto in tempo a ripararsi dietro una roccia. Il secondo balzo di lui è accompagnato da un altro colpo dell'austriaco, anche questo fortunatamente andato a vuoto, mentre anch'io con grande rapidità sbuco fuori. Il mio compagno continua intanto ad avanzare spostandosi velocemente da una sporgenza all'altra ed io lo seguo. Il "cecchino" finora ha sparato invano cinque colpi che in preda ad una grande ansia ho contato attentamente uno dopo l'altro. Un ultimo tiro ancora e poi sarà costretto a cambiare il caricatore; basterà quest'attimo per permetterci d'arrivare al piccolo posto. Ecco che il sergente si slancia arditamente per il successivo balzo; il colpo del "cecchino" parte e lo becca proprio quand'egli sta per raggiungere la pattuglia. L'ardimentoso Morabito barcolla e si comprime la spalla destra con una mano, ma riesce con supremo sforzo a pervenire alla meta. Io l'ho seguito e poco dopo lo raggiungo. Siamo in salvo. Il mortale pericolo è superato e possiamo considerarci fortunati perché la ferita del bravo sergente è lievissima e basta per essa una piccola medicazione compiuta con i mezzi di fortuna che abbiamo.
Intanto il capoposto mi spiega la ragione dell'allarme che ha dato: egli, sporgendo cautamente la testa dal macigno che lo protegge insieme con i tre uomini che ha con sé dalle offese avversarie, ha potuto vedere nella trincea nemica un ufficiale che indicava a due graduati un tratto della nostra linea ove evidentemente pensava che si potesse fare una proficua sorpresa; poco dopo nella stessa trincea aveva visto arrivare una ventina di soldati bosniaci in rinforzo. L'intelligente caporale, comprendendo che qualcosa di nuovo si stava preparando, aveva voluto portare subito a mia conoscenza il pericolo, ma non avendo alcun mezzo di segnalazione gli era stato necessario chiamare qualcuno di noi sul posto per comunicare l'importante notizia. Il racconto del capopattuglia si svolge tra una fittissima gragnuola di pallottole che il nemico, indispettito forse per il fatto che i colpi del "cecchino" sono andati a vuoto, scaglia contro il roccione dietro il quale siamo riparati. Nessuno di noi è colpito, ma le fucilate e le scariche di mitragliatrici, che si susseguono senza interruzione, impediscono a me e al sergente Morabito, che è dolorante per la sua ferita, di tornare nella nostra trincea. Fino a sera rimaniamo bloccati, ma con il sopraggiungere dell'oscurità e di una densa nebbia che ci nasconde, decidiamo di giocare d'audacia e con un risoluto balzo rientriamo nella linea, insieme con la pattuglia avanzata che, in vista di una sorpresa del nemico, ho ritenuto prudente far retrocedere perché sarebbe stata sicuramente catturata.
Ormai siamo sull'avviso; se gli austriaci vorranno venire ad attaccarci troveranno pane per i loro denti. Intanto ho avvisato per telefono il comandante della posizione principale del pericolo che si profila. Né mi ero ingannato. Infatti verso le 22, mentre il buio più fitto ci circondava, s'è levato all'improvviso in prossimità del nostro trincerone un formidabile "urrah". I soldati bosniaci, una ventina in tutto, si lanciano contro di noi, facendosi precedete da un nutrito lancio di bombe a mano. Alcuni fanti rimangono feriti, ma gli altri non si sgomentano ed attendono il nemico al varco, cosicché quando i primi nemici si affacciano al nostro parapetto vengono finiti a colpi dì baionetta. Un gruppo informe di cadaveri si stende davanti a noi; dietro a questo sono appiattati gli austriaci superstiti che non hanno ancora rinunciato al loro proposito. Ma le nostre bombe fanno scempio dei vivi e dei morti, finché i fanti, insofferenti di ogni attesa, salgono sul parapetto e gridando "Savoia!" si gettano sugli avversari, uccidendoli all'arma bianca. Uno solo di essi è scampato alla strage e viene trascinato prigioniero nella nostra trincea. Il nemico ha avuto il fatto suo! L'artiglieria austriaca che prima dell'improvviso attacco si era astenuta dallo sparare per non metterci in allarme, una mezz'ora dopo che l'audace tentativo era stato sventato manda qualche granata sulla nostra zona ma deve presto desistere perché le due linee sono vicinissime e alcuni colpi sono caduti sugli avamposti dello schieramento avversario.