Rancio di emergenza

di Luciano Viazzi

Tutti conoscono il vecchio detto "Meglio un asino vivo che un dottore morto", ma ben pochi sono a conoscenza che gli alpini, aggrappati alle pendici del Piccolo Lagazuoi, asserivano il contrario, con la convinzione profonda data dall'esperienza. Questo accadeva nell'ambito del battaglione Val Chisone e precisamente presso il comando della 229ª compagnia, tenuto dal simpatico e valoroso capitano Masini. Lassù, in quella baracca agganciata alla roccia, dove gli ufficiali mangiavano e facevano la siesta con delle interminabili partite a poker, c'era un medico, un certo Michele Bolaffio, che faceva coscienziosamente il direttore di mensa. A vedere il vasellame di cucina c'era da rabbrividire: piatti sbocconcellati, posate scompagnate e insufficienti per tutti, bicchieri incrinati e per zuppiera una mezza latta, che il piantone incaricato di servire a tavola appoggiava a terra in un angolo della stanzetta, mentre tutti fingevano di sputarci dentro, prendendola per una sputacchiera. Questa abitudine mandava in bestia l'ufficiale medico, ristoratore prò tempore, il quale, per conto suo, condiva le pietanze con certe orride descrizioni (che cercava nelle sue cognizioni sanitarie di orripilanti malattie) da far rivoltare stornaci meno schizzinosi degli alpini. In tal modo, egli pensava di rovinare l'appetito e risparmiare così sulla spesa, ma con poco effetto a dir la verità. Un giorno, un maledetto austriaco andò a piazzare un cannoncino da trincea fuori dalle linee, nei pressi di Forcella Travenanzes, in modo da riuscire a vedere e purtroppo anche colpire, un angolo della baracca-refettorio. Era quasi l'una e si stava mangiando un ottimo risotto alla milanese (piatto speciale, fuori ordinanza...), quando una granata scoppiò con grande fragore nelle vicinanze della mensa, rompendo un paio di vetri. Gli ufficiali presenti se la diedero tutti a gambe, ma senza mollare il piatto fumante che tenevano saldamente in mano: non se ne sarebbero separati nemmeno se fosse caduta la montagna!
Nel dicembre del 1916, la neve caduta nella zona fu veramente molta e le valanghe così frequenti e pericolose, che per qualche giorno il presidio rimase senza rifornimento viveri. Soldati e ufficiali dovettero far fronte all'emergenza mediante galletta rinsecchita e scatolette di carne. La dispensa era vuota: il responsabile della mensa si era dimostrato di una imprevidenza imperdonabile e non è facile immaginare la quantità di improperi che dovette sorbirsi in quella occasione. Arrivò a perdere persino la sua bella sfacciataggine e l'inarrestabile parlantina. Per fortuna, dopo alcuni giorni di digiuno, il tenente Filipponi, durante una ricognizione "alimentare" trovò la carogna di un asinelio che affiorava da un cumulo di neve. Si trattava di un quadrupede addetto alle salmerie di reparto, che un paio di settimane prima era stato travolto da una slavina notturna. La scoperta dell'asino morto aguzzò la fantasia del medico vivo, il quale pensò di prepararne delle bistecche per la mensa ufficiali. A farla breve, l'iniziativa ebbe un così clamoroso successo, che tutti furono d'accordo nel conclamare che l'asino morto era stato assai più previdente e utile del dottore vivo. Da questo episodio, scaturì una nuova versione del vecchio detto tramandato ai posteri: "Vale più un asino morto che un dottore vivo"!