L'esplorazione sulla Tofana di Rozes
di Max Stark
II 1° battaglione dello Jägerregiment 3 era accampato nel tratto fra la Cima di Lusia e il Passo di Sella. La domenica 18 luglio 1915, pervenne dal quartier generale del Deutsches Alpenkorps l'ordine di costituire una pattuglia d'alta montagna con Jäger esperti d'alpinismo.
La pattuglia, composta di volontari, doveva essere impiegata nella rischiosissima zona delle Tofane. Le truppe del 1° battaglione si raggrupparono il giorno 19 a Moena e, agli ordini del tenente della riserva Denzel, la pattuglia fu trasportata mediante carriaggi nelle vicinanze della zona d'esplorazione. Alle 12,30 le vetture partirono da Moena. Con un tempo splendido si passò senza far sosta per Predazzo, Cavalese ed Ora, diretti a Bolzano, dove più di una vecchia conoscenza ivi acquartierata ci salutò cordialmente e si stupì di vederci in equipaggiamento d'alta montagna. Mezz'ora di fermata in Piazza Walter trascorse rapidamente. Alle 14,30 fu dato ordine di ripartire e presto raggiungemmo Bressanone, dove avvenne il cambio degli automezzi. Poco prima di Brunico, nei pressi di S. Lorenzo, piegammo verso sud, in direzione della Val Gardena. A Pedraces ci rifocillammo e subito dopo, a La Villa (erano le ore 22), lasciammo definitivamente gli autocarri. Avevamo così compiuto un viaggio quanto mai suggestivo nelle Dolomiti, grazie alla circostanza che il percorso più breve Passo del Pordoi - Arabba - Corvara era esposto al fuoco dell'artiglieria nemica. Carichi del nostro equipaggiamento, salimmo ancora verso S. Cassiano e trovammo alloggio per quella notte sul fieno odoroso di una spaziosa baita. Fu una notte breve, che quando entrammo nella baita erano già le 23,30, e il mattino successivo, per tempo, io dovetti scendere di nuovo, con alcuni uomini, fino a La Villa, per prendervi in consegna e portare a S. Cassiano una notevole quantità di scarpe da roccia, corde, coperte di lana e ramponi da ghiaccio, a completamento dell'attrezzatura della pattuglia. Fummo di ritorno alle 11 antimeridiane. Frattanto ci eravamo quivi imbattuti anche nella pattuglia del 3° battaglione; né facemmo più in tempo a consumare la colazione, perché, subito dopo il nostro ritorno, la pattuglia, composta ormai di circa 80 uomini, si pose in cammino.
La marcia ci portò, lungo il rio Sarè, fino alla malga Lagazuoi. Il sole, che era quasi a perpendicolo su di noi, dardeggiava implacabile, e lo zaino che, sebbene affardellato, conteneva a stento tutta la nostra roba, ci gravava le spalle. Ben presto ammutolirono i discorsi sulle possibilità di salita alla cima delle Conturines che si ergeva a sinistra della nostra direzione di marcia. I passi rallentavano e la colonna si faceva sempre più lunga, ma il magnifico spettacolo, che ci si offriva ad ogni svolta della valle, ci strappava continue esclamazioni di entusiasmo. Alla malga Lagazuoi facemmo tappa.
Qui, si diceva, dovevamo alleggerirci del nostro bagaglio per la salita sulla Sella di Fanis. Comparvero in effetti anche alcuni animali da soma di una colonna austriaca. Li caricammo delle nostre coperte di lana e dei teli da tenda, poiché di più non avrebbero potuto portare. Se pure la diminuzione di peso non fu notevole, proseguimmo la salita di buon animo, gustando la pace di quella vallata e la magnificenza delle montagne che la circondavano. L'ascesa però si fece presto più ripida e ad un tratto i conducenti dei muli dichiararono di non poterci più accompagnare oltre con le loro bestie. Noi non ne eravamo propriamente convinti; ma a nulla valsero le esortazioni del capopattuglia, che gli animali furono scaricati e, prima ancora che avessimo potuto affibbiare nuovamente il nostro equipaggiamento allo zaino, i conducenti stavano già scendendo con le loro bestie verso la malga Lagazuoi.
Breve, anzi brevissimo, era stato il percorso lungo il quale ci avevano reso quel piccolo servigio; cosicché ognuno dovette ritrasformarsi in bestia da soma e salire, tra grandi mucchi di sassi, su per il ripido sentiero. Poco oltre, avendo noi guadagnato alquanto in altezza, il nostro sguardo potè spaziare, oltre la sella tra il Grande e il Piccolo Lagazuoi, sul Nuvolau Alto e le Cinque Torri. Immersi nella contemplazione, sostammo un po' per riprender fiato; quand'ecco il nostro riposo fu interrotto dal rimbombare di granate sul Piccolo Lagazuoi, alla nostra destra. Eravi colà una postazione di batteria da montagna e su di essa si concentrava evidentemente l'attenzione degli Italiani. Credemmo allora di avere scoperto il motivo del frettoloso ritorno della colonna di bestie da soma.
Il resto della via era esposto al tiro dei cannoni italiani. Sempre più si ergeva il sentiero tra rocce friabili, mentre neppure una nuvoletta velava il ciclo di cobalto. Le rupi riverberavano l'ardore dei raggi del sole. Le nostre gole erano inaridite. Ciononostante il ritmo di marcia della colonna, in ordine assai sparso, si accelerava sempre più. Come ci eccitava la consapevolezza di trovarci nel raggio d'azione dei cannoni nemici! Alle ore 6 pomeridiane ci radunammo sulla Sella Fanis (m 2700).
Qui, vedendo per la prima volta le tre cuspidi della Tofana, rimanemmo attoniti dalla straordinaria imponenza della parete a picco di ponente, la quale, illuminata in pieno dal sole, assomigliava a un muro liscio, che dal rosso e grigio delle rocce e dal verde morbido delle praterie scendeva a piombo fino ai nostri piedi, nel fondo della Val Travenanzes. Lassù, oltre il ruscello, appariva ben piccolo il rifugio Wolf-Glanvell, e minuscole addirittura come giocattoli si scorgevano le tende dei nostri fratelli d'arme. Quale profonda pace! Eppure là, sul Col di Bois, stava in agguato la morte, sì che dovemmo compier la discesa alla spicciolata e il più rapidamente possibile. A gran salti ci affrettammo al basso, nel luogo di adunata fissato in precedenza, ai piedi della parete ovest della Tofana di Roces. Lì sostammo per ripigliar fiato e per gettare uno sguardo sulla Tofana di Mezzo. Nella porpora del tramonto l'estesa cima si stagliava sul ciclo turchino e lassù se ne stavano, in fitta schiera, gli alpini, osservando immobili la nostra entrata nel loro raggio d'azione.
Di nuovo i nostri sguardi si posarono sulla parete ovest della Tofana di Roces, che gradatamente si scolorava. Ci domandavamo: si sarebbe potuto arrivare fin lassù?
Dal nostro punto di osservazione, qui, rasente al piede della rupe ergentesi a picco nel cielo, sembrava quasi impossibile.
La stanchezza ci aggravava le membra come piombo, allorché ci disponemmo a percorrere il breve tratto fino al rifugio Wolf-Glanvell. I discorsi si aggiravano ora sulla questione se, una volta giunti nel rifugio, avremmo dormito sui materassi oppure ci saremmo coricati al suolo; ma il come era indifferente, purché ci fosse riuscito di prender sonno quanto prima e a lungo. Tra siffatti discorsi, che avevano per tema il dormire e anche il mangiare - poiché ci tormentava una fame da lupi - raggiungemmo alle ore 20 il rifugio Wolf-Glanvell. Quivi si era acquartierato il comandante del settore, maggiore Spiegel, con lo stato maggiore del 1° Bayerisches Jägerbataillon. A noi fu pertanto assegnato per accampamento uno spiazzo sui prati, di là dalla trincea; e il sogno dei materassi svanì. Sfiniti di stanchezza, ci cercammo un terreno possibilmente eguale e lentamente procedemmo a piantare le tende. In questo frattempo apprendemmo che non c'era niente da mangiare, perché era mancato il vettovagliamento.
Riuscimmo ad avere dagli Austriaci appena un ottavo di litro di caffè. Parecchi, avvolti solamente nei teli delle tende, si stesero sull'erba. Io mi costruii col mio gruppo un attendamento a parte. Alle 22,30, tremanti di freddo, ci ficcammo entro l'approntato riparo, nella speranza di dimenticare, mercé un lungo sonno, la fame e la stanchezza. Viceversa, dopo mezz'ora circa, io fui destato e convocato col sergente Bauer nel rifugio Wolf-Glanvell, presso il comandante del distaccamento, tenente Denzel. Questi ci espose la situazione.
La zona delle Tofane, gravemente minacciata, doveva essere purgata dagli alpini annidatisi sulle cime, nelle selle e negli accessi, e soprattutto bisognava impedire a qualsiasi costo che gl'Italiani si stabilissero sulla Tofana di Roces, con la sua veduta generale e prospettica delle nostre posizioni. Gl'Italiani, presumibilmente, erano già stati più volte avvistati sulla Tofana di Roces; ora, una durevole presa di possesso di questa altura avrebbe significato una estrema minaccia per le truppe stanziate in Val Travenanzes e le posizioni che da Lagazuoi si estendevano fino al sì accanitamente conteso Col di Lana. Io ricevetti perciò l'incarico di mettermi in cammino, la notte stessa, con tre volontari, quale pattuglia, di scalare l'ardua parete di ponente, alta 1200 metri, di sloggiarne gl'Italiani e di occupare la cima. Quanto a Bauer, doveva con dieci uomini, procedendo da nord, spingersi egualmente verso la vetta.
Le mie modeste obiezioni, che eravamo spossati dalla marcia di avvicinamento con un sì greve fardello, che per l'intera giornata non avevamo toccato cibo e neppure chiuso occhio fino alla partenza della pattuglia, furono annullate dalla considerazione, che il comandante del corpo, S.E. Krafft von Dellmensingen, annetteva la massima importanza al possesso della cima e che l'intensa attività degl'Italiani non consentiva di perdere altro tempo.
Allora mi feci fare dalla guida alpina Oppel, che era in forza nel 1° Jäger come sergente, una sommaria descrizione dell'itinerario. Oppel aveva avuto la disavventura, eseguendo, tre giorni prima, il medesimo incarico, di rimanere, lassù nella parete rocciosa, ferito da una palla ad una mano. Con gran difficoltà egli aveva potuto ritornare, con i suoi uomini, nel rifugio, ove alloggiava nel solaio assieme ad altri feriti e ammalati. Alla sua prima domanda, s'io avessi già scalato la parete nord di Hochwanner, risposi affermativamente; fu allora dell'opinione che avrei potuto farcela, quantunque ritenesse la parete ovest della Tofana un osso ancor più duro; tenuto conto, altresì, che avremmo dovuto inerpicarci in pieno assetto militare.
Frattanto eravamo arrivati alle ore 24,30 di martedì, allorché mi diressi verso la mia tenda, guidato da lungi, nella buia notte, dal russare dei miei caporali. I miei uomini non si rallegrarono gran che, quand'io li ridestai e annunziai loro l'incarico che ci era stato affidato. I fucilieri Lüdecke, Beyschlag e Kemnitz si offersero come volontari. Per quella notte, addio riposo! Dovevamo rifornirci di viveri, che erano molto scarsi. Per quattro persone ottenni solamente un barattolino di carne in conserva ed uno di marmellata di prugne. Affastellammo al buio le nostre robe e ai primi albori ci mettemmo in cammino.
Alle 5 eravamo davanti al nevaio che sporge dal gran canalone, pronti per l'attacco alla parete alta 1200 metri. La neve, dapprima abbastanza farinosa, favoriva la nostra salita; presto ci trovammo tuttavia sul duro ghiaccio. Ci sforzammo di ascendere, fino a che l'impraticabilità della gola ci costrinse a desistere. Per malagevoli vie traverse, a mano destra (nel senso della salita), raggiunsi il primo tratto di un camino. Appoggiando l'un piede sul ghiaccio e l'altro sulla parete del camino, ci sbarazzammo delle scarpe chiodate e, badando a non perdere l'equilibrio, infilammo quelle da roccia. Il peso dei nostri zaini, già di per sé grave, si accrebbe notevolmente con le nuove calzature. A due a due formammo una cordata, indi io mi accinsi alla scalata dell'angusto camino, che si rivelò aspra assai per via dello zaino rigonfio, della pesante cartucciera e della carabina.
Sbucai su un macereto e mi feci raggiungere dai miei compagni di corda. Ci volle parecchio tempo prima che la seconda cordata giungesse al nostro punto di sosta. Decisi allora che, nei passi più difficili, si legassero insieme le due corde e si procedesse poi sulle mie orme in cordata a quattro. Cedetti all'uopo una parte del mio bagaglio ai miei tre compagni, per non essere sovraccarico nell'avanzata. Con questo primo esperimento avevamo perduto del tempo prezioso.
Salimmo, oltre la prominenza, su una cengia coperta di sfasciumi di roccia; la seguimmo per una quarantina di metri volgendo a destra, per poi ritornare, attraverso impervi sedimenti della parete e altri camini, a sinistra fino all'estremo limite del burrone. Giunti sull'orlo, ci inerpicammo su per diversi gradini della parete, fino a che potemmo gettare lo sguardo in una conca ricolma di massi; ma non vi ponemmo piede, perché era eccessivamente scabra. Piegammo in quella vece nuovamente a destra e, per balze ghiaiose, raggiungemmo un'ampia terrazza. La seguimmo girando per un fianco e di lì a pochi passi pervenimmo all'imbocco di una gigantesca caverna, che, a occhio e croce, si trovava ad un'altezza di 2400 metri.
Decidemmo di riposarci qui per la prima volta, essendo già trascorse più di cinque ore dall'inizio della scalata della gola. La giornata si faceva nuovamente calda, mentre nella caverna regnava la frescura e si poteva anche calmare alquanto la sete con qualche goccia d'acqua ... insomma, una tappa gradevolissima. A metà della caverna, a una quindicina di metri dall'imbocco, trovammo delle schegge di granata e un innesco. Al momento dell'esplosione di quel proiettile, il soggiorno là dentro doveva essere stato meno piacevole!
Mentre eravamo sdraiati al fresco, dalla parte opposta, sopra la Val Travenanzes, le pareti del Gran Lagazuoi e della Punta sud di Fanis incominciavano a corruscare al sole. D'improvviso, quale fragore! dall'altra parte, alla nostra altezza, comparve sulla parete del Gran Lagazuoi un grosso nugolo di polvere. Le pietre rotolavano in basso ... era scoppiata una granata italiana, a cui ne seguirono molte altre. Negli intervalli abbaiavano le mitragliatrici ... poi nuovamente seguì la quiete della montagna.
Alle 11 riprendemmo la scalata, volgendo ancora a sinistra dell'ampia gola. La parete, che la sera innanzi ci era sembrata, dal basso, liscia al pari di un muro e inaccessibile, si presentava ora come una bella gradinata. Terrazzi di erosione e cenge si svolgevano in una serie in apparenza interminabile. Dopo esserci lasciati addietro dei camini e delle pareti lisce, ci trovammo da capo sul margine della gran gola. Di qui potevamo spaziare con lo sguardo fino alla Tofana Seconda (di Mezzo), sulla cui vetta brulicavano gli alpini, i quali però, non appena la nostra mitragliatrice in Val Travenanzes apriva il fuoco, si gettavano col ventre a terra. Essi rappresentavano un manifesto bersaglio. Fino ad allora avevamo trovato, ogni qual tratto, dei noccioli di prugna, provenienti senza dubbio dalla pattuglia Oppel, indizio che eravamo tuttora sul giusto itinerario.
Evitammo nuovamente la gola e ci arrampicammo, per un'erta gradinata della parete, su una cengia, che percorremmo verso destra, fino a che fummo costretti ad affrontare la prossima gradinata. Una parete si susseguiva all'altra e noi ci spingevamo sempre più a destra. Ad un tratto ci trovammo sul margine sinistro di una seconda gola, che scendeva a picco. Non c'era che da prendere una strada più discosta, ma tale prospettiva era poco allettante per le nostre forze ormai ridotte all'estremo.
Dovevamo seguire lo spigolo sinistro e poi risalire, quasi a perpendicolo, per circa 30 metri, una placca liscia; dopo di che il terreno pareva spianarsi. Mi liberai dello zaino, della carabina e della cartucciera e, dopo un estremo sforzo, mi trovai, ansimante, aggrappato all'orlo di una conca dolcemente inclinata a eguale altezza di tre grandi, semicircolari caverne. Trassi su con una corda prima le quattro carabine, poi i quattro zaini ed infine i miei tre compagni, sì che le mani e le braccia mi si aggranchirono a forza di tirare la fune. Attraversando la conca, scalammo uno spigolo giallo, pieno di fenditure ed alle 6 pomeridiane pervenimmo sull'orlo di un'ampia terrazza, di cui non riuscivamo a scorgere il termine a destra. Anche Oppel, stando alla sua descrizione, doveva aver raggiunta questa terrazza allorché la ferita alla mano l'aveva costretto a tornare indietro. Conforme al suo consiglio, noi dovevamo attendere colà l'imbrunire e soltanto allora avventurarci per la terrazza, poiché l'altra strada era battuta dall'artiglieria piazzata sulla Cima Falzarego.
Lüdecke, il quale, per rendersi conto della posizione, si era spinto fino all'angolo della terrazza, potè darne conferma. Aspettammo dunque, a circa 2800 metri d'altezza!
Credevamo di poter affermare d'esserci ormai lasciate addietro le maggiori difficoltà tecniche della scalata, col superamento della parete che si ergeva ai nostri piedi. Dopo gli sforzi sovrumani compiuti, il riposo ci giovò assai; eppure affrettavamo col pensiero la venuta del crepuscolo, per poter rimetterci in cammino, giacché ci opprimeva, con tormentosa incertezza, questo interrogativo: "Potremo noi adempiere il nostro incarico, giustificando la fiducia in noi riposta?". Alle ore 19 - era ancora giorno chiaro, si può dire - riprendemmo il cammino e attraversammo orizzontalmente la cengia per un centinaio di metri, verso destra, girando lo spigolo di sud-ovest. Quand'ecco ci fermammo attoniti. Laggiù si apriva il campo ad imbuto del Passo Falzarego e proprio sotto di noi, quasi ad un tiro di sasso, si ergevano le tende degl'Italiani adagiati dietro le rupi e sui prati. Proseguimmo, tuttavia, senza gettar sassi, procurando anzi di non smuoverne alcuno coi piedi; indi io procedetti striscioni sulle soffici suole delle scarpe da roccia, per circa 20 metri, su per un ripido gradino della parete.
Frattanto il crepuscolo si era fatto più fosco, sì che non dovevamo più temere d'essere scorti e fatti segno al tiro nemico. In cambio, ci si profilava ora ostilmente dinanzi la montagna con tutta la sua imponenza, sì che incominciavamo a dubitare della possibilità di proseguire. Un costone assai ripido e liscio trapassava in una parete nera, umidiccia, quasi a perpendicolo. Veniva poi una serie di sporgenze nere e stillanti acqua, per quanto ci era dato ancora discernere alla fioca luce crepuscolare.
Finalmente credetti di scorgere una cengia che, innalzandosi ripidamente a sinistra, e a tratti interrotta, spariva nel buio. Quella io dovevo raggiungere. Feci venire Beyschlag, senza zaino, sulla mia terrazza aerea, indi mi arrampicai per un paio di metri su per la parete verso sinistra e mi trovai sul piccolo, umido passaggio, da cui mi sgocciolava l'acqua sulle spalle. Mi spinsi più in alto che mi fu possibile, però il fucile nel salire mi era di grandissimo impaccio, in quanto mi avveniva spesso di urtare con il calcio contro la parete; dovetti perciò fare molta attenzione a mantenere l'equilibrio, giacché quel passaggio così lubrico richiedeva la massima prudenza, tanto più che la notte era ormai fitta.
A lungo e invano io tastai con la mano sinistra tutt'attorno alla roccia, fino a che, quando ormai i piedi incominciavano a vacillare, trovai un appoggio alla falange anteriore del dito medio. In questa spasmodica situazione c'era poco da tergiversare. Indietro non potevo più tornare; avanti dunque, che anche la mano destra avrebbe trovato qualche appiglio. Aiutandomi più che potevo con tutti e due i piedi, mi trassi più in alto, cercando affannosamente con la destra dove potermi ancora aggrappare. Ebbi fortuna! poiché non trovai soltanto un sì problematico sostegno, quale mi si era finora offerto, bensì un vero e proprio appiglio. Aggrappandomi subito con la sinistra, riuscii, con uno strattone che mi procurò un forte colpo del fucile sulla nuca, a superare il passo! Sentii la corda tendersi: i 20 metri ch mi collegavano ai compagni d'impresa erano già interamente svolti.
Solo allora mi resi conto che, coi nostri zaini - quello di Beyschlag pesava circa 50 libbre - non avremmo più potuto cavarcela, meno che mai con quel buio pesto. Tutto ciò che vedevo d'attorno pareva fisicamente minacciarmi, sì che, per quanto amara dovetti prendere la decisione del ritorno. Non avevamo né martelli né chiodi, e le mani, per quanto cercassero, non riuscivano a trovare un sostegno a cui potessi assicurare la corda. Bisognò dunque ridiscendere e proprio per quella sporgenza ch'io avevo testé conquistata con una tale tensione morale e fisica! Pur non credendo a un esito felice, riconobbi che non c'era altro scampo. Ancora una volta esaminai la disposizione degli appigli, mi asciugai le mani e mi appesi a uno degli stessi. La mano destra ritrovò il piccolo buco nella roccia umida - la chiave, per così dire, di questa sporgenza -; la sinistra esitava ad abbandonare quel buon appiglio, ma così dovette fare, prima che la destra si stancasse. Ammaccandomi penosamente il busto, scivolai giù, fino a che la mano sinistra trovò un appoggio sotto la sporgenza, e i piedi si posarono sul piccolo passaggio. Tremante per la smisurata tensione, pervenni felicemente al costone, dove per primo dovette discendere il mio camerata, affinchè io potessi prender il suo posto. I miei compagni, allorché ci riunimmo sulla grande cengia, rabbrividivano dal freddo.
Quasi due ore erano trascorse in questo tentativo. Esausti e demoralizzati, strisciammo di nuovo attorno allo spigolo di sud-ovest e sotto un piccolo riparo cercammo un posto per la notte. Qual era il risultato della nostra esplorazione? La vetta non era stata raggiunta. Respinti dunque non già dal nemico, ma dalla montagna? Ciò non doveva essere! Per quanto ci seducesse il pensiero della discesa, all'alba del mattino successivo bisognava ritornare alla carica. Dovevamo raggiungere la cima, domare la roccia!
In breve ci sistemammo per la notte, ci ravvolgemmo nelle tende da campo e ci coricammo su un breve spiazzo, tra la parete e il muro di neve che circondava la cengia. Erano le ore 11 di notte. Non ci rimaneva più nulla da mangiare; che le scatole di carne e di marmellata erano state vuotate da un pezzo. Per spegnere la nostra sete ardente non c'era che della neve nericcia. Neppur quella notte il sonno ci ristorò. Sfiniti dalla stanchezza, ci appisolavamo, ma tosto il freddo ci riscoteva. Le ore si trascinavano interminabili, e noi gelavamo miseramente. Si fosse almeno affrettato ad albeggiare, che avremmo potuto muoverci! Del moto ce ne sarebbe poi stato d'avanzo, ma ci avrebbe fatto conquistare la vetta! Le rade stelle si andavano spegnendo, ma l'alba non voleva spuntare.
Finalmente tutto divenne grigio e smorto. Pian piano si addensava sulle pareti rocciose la nebbia; un nuovo, insidioso nemico. Con una fame implacabile in corpo, alle 4 ci rimettemmo a salire. Come sarebbe andata a finire? Ieri ci aveva ricacciati indietro la notte, oggi la nebbia, che tutto avvolgeva nei suoi vapori, ci offuscava del pari la visuale. Ciononostante, volli tentare verso sinistra e percorsi la cengia fino a che, a pochi metri dal nostro bivacco, essa si arrestava davanti a un basso, screpolato gradino della parete. In un balzo vi fui sopra e mi feci seguire dai camerati. Dinanzi a noi si ergeva un angusto ghiaione, che menava nuovamente verso destra. A sinistra, sopra il nostro capo, vi era il precipizio della cresta nord. Eravamo talmente deboli, che quel breve sforzo ci riuscì oltremodo penoso.
La nebbia si infittiva e incominciava a piovigginare, sì che ogni prospettiva andava dileguandosi. Beyschlag e Kemnitz rimasero indietro con gli zaini; io, assieme a Lüdecke, mi posi ad esplorare il percorso della cengia. Dopo averla seguita per un lungo tratto, riscontrammo che essa, elevandosi a sinistra sulle pareti strapiombanti, conduceva al grande, roccioso, dirupato pendio della cima. Pieni di gioia tornammo indietro per annunziare ai camerati la nostra scoperta. La montagna era stata vinta in astuzia; ormai soltanto gl'Italiani potevano ancora contenderci la vetta!
Appena scorgemmo i nostri compagni seduti sulla cengia, io diedi loro a gran voce la lieta notizia che l'avremmo spuntata, non appena si fosse squarciata la nebbia e il dirupo della cresta nord fosse nuovamente libero. Il mio sguardo si spingeva oltre fino alla linea della cresta, allorché, sopra una sporgenza rocciosa, che si innalzava da 150 a 200 metri su di noi, scorsi due uomini, i quali osservavano nella nostra direzione. Non potei individuare con certezza se fossero componenti della pattuglia Bauer oppure Italiani. Ne resi edotto Lüdecke, affinchè si tenesse il più possibile al riparo. Frattanto quei di lassù si erano ritirati dietro lo spigolo della cresta nord, cosicché se ne scorgevano soltanto le teste, intente a guardare in giù. Osservando col mio binocolo Zeiss che ingrandiva 12 volte gli oggetti, riuscii, sebbene disturbato a più riprese dagli strati di nebbia, ad accertare che quegli uomini portavano dei berretti piatti, con grandi visiere. A tale scoperta, gridai ai miei due camerati, che sedevano ignari presso gli zaini, di mettersi al sicuro, e spianai il mio moschetto. Subito una delle teste sparì. Poco dopo udimmo un fischio acuto, indi l'uomo ancora sdraiato lassù si alzò altrettanto di scatto, accennò verso di noi con un lungo bastone da montagna e disparve in un baleno dietro lo spigolo della cresta.
Gli uomini della pattuglia Bauer non avevano né i berretti piatti né i bastoni da montagna. Poteva mai essere che gli alpini - tali erano senza dubbio - avessero rinunziato a tirare su di noi, che eravamo come piccioni sull'esposta cengia? Oppure avevano essi avvistato la numerosa pattuglia Bauer che si inerpicava verso la cima e giudicavano più vantaggioso non tradire la loro presenza sparando? Ad ogni buon conto, noi ci affrettammo a lasciare quel posto e, mentre ricominciavano la nebbia e la pioggia, ci avviammo lungo il pendio della vetta con lo sguardo sempre rivolto verso la cresta a sinistra. Un sedimento viscido della parete rocciosa, stillante acqua, ritardò ancora una volta il nostro cammino; di lì pervenimmo ad un tetto di mediocre pendenza, nel cui fondo scorreva l'acqua, e che metteva capo al pendio della cima. Nel luogo dove eravamo giunti si ergeva un edificio per due persone, costruito con rottami di roccia, ove erano sparsi a terra parecchi noccioli di prugne. Supponemmo che fosse opera degli alpini, per avere a disposizione un riparo contro la pioggia e il vento, quando essi fossero in agguato da quelle parti, ed al quale potesse pervenire chi scalava la parete di ponente. E poiché in quel giorno essi non erano là, è probabile che li avessimo scorti, per l'appunto, durante il loro ritorno lungo la cresta nord.
La pioggia era cessata, ma la nebbia impediva pur sempre ogni lontana prospettiva. Per quanto ci era dato scorgere, il pendio procedeva con uniforme inclinazione tra i sassi. Tenendoci ognora a portata d'occhio della cresta nord che saliva a sinistra, proseguimmo lentamente verso la vetta. Spesso dovevamo sostare, per non affaticare troppo il cuore che ci martellava violentemente. Eravamo ancora a circa 150 metri dalla sommità, allorché la nebbia si diradò. Uno sguardo al basso ci fece nuovamente scorgere l'attendamento degl'Italiani. Nel procedere oltre, notammo su in cima una figura imprecisa di uomo. Non riuscivamo a distinguere se fosse un amico o un nemico. Ci gettammo istantaneamente a terra, indi io scrutai a lungo col cannocchiale, ma senza alcun risultato. La figura aveva un mantello sulla testa e se ne stava immobile, con lo sguardo fisso nella nostra direzione. Ci avvicinammo adagio e strisciando, senz'essere scorti; la nebbia fluttuante ci doveva rendere invisibili. Non distavamo forse più di una sessantina di metri, allorché, grazie al mio binocolo, ravvisai nel mantello la tenda appartenente alla vedetta della pattuglia Bauer. Diedi da lungi una voce e subito la cima si popolò; saluti di gioia si scambiarono da ambo le parti. Ormai non era più necessario che noi facessimo mistero della nostra presenza. L'incarico era adempiuto ... la vetta era nostra. Alle 11,30 da buoni camerati in guerra e fra le rocce, ci stringemmo, lassù in cima, le mani.
Eravamo pressoché all'estremo delle nostre forze. Nessuna meraviglia, dopo tre giorni senza aver quasi toccato cibo e due notti senza aver chiuso occhio! Si aggiunga la sfibrante salita al rifugio Wolf-Glanvell e subito dopo, senza il più piccolo pasto, la conquista di quella parete, che aveva richiesto degli sforzi sovrumani sia fisici sia morali. Conforme agli ordini ricevuti, le nostre pattuglie avrebbero dovuto incontrarsi sulla vetta alle ore 24 della notte dal mercoledì al giovedì. Bauer aveva potuto, per un itinerario assai più agevole del nostro, raggiungere dal lato nord la cima sgombra dal nemico, due ore e mezza prima del nostro arrivo.
La nebbia, che ricominciava ad addensarsi, impediva di vedere. Un incessante rombare di cannonate, in mezzo a cui si percepivano i colpi sordi dei mortai austriaci da 24 cm, proveniva a noi dal basso. Dopo aver regolati i turni di vedetta, ci avvolgemmo nella tenda da campo e ci coricammo in un avvallamento, non molto profondo, della cima. Faceva un gran freddo a quella altitudine di 3220 metri; sì che in breve il gelo, penetrando attraverso la tenda e le giacche a vento, ci costrinse a rinunziare al riposo, pur così necessario, e a rimetterci in moto.
Secondo gli ordini, dovevamo rimanere sulla cima fino alle ore 18, allorché un'altra pattuglia, salendo per il medesimo itinerario seguito da Bauer, ci avrebbe sostituiti. Giunsero le 18, ma invano scrutammo, verso la cresta nord, la parte da cui doveva arrivare il cambio. Siccome i minuti diventavano ore, scendemmo insieme con la pattuglia Bauer, oltre la cresta nord ricoperta di neve, per aspettare la pattuglia all'estremità di essa, nel caso che non l'avessimo dovuta incontrare prima. Alle 19, trovammo i nostri camerati, con alla testa Neubert, là dove avremmo dovuto scostarci dalla cresta nord verso destra. Ormai il nostro compito era stato interamente assolto e potevamo discendere. Se, per qualche motivo imprevisto, l'incontro con i nostri camerati fosse stato ritardato, avremmo dovuto protrarre la nostra guardia, poiché la vetta non poteva rimanere abbandonata. Fra congratulazioni reciproche, la nuova pattuglia salì sulla cima e noi scendemmo a valle, attraversando rapidamente i dirupi del lato nord. La nebbia, che fino ad allora ci aveva permesso di rasentare, nella discesa, le postazioni italiane, si diradò e svanì del tutto; sicché noi dovemmo nasconderci dietro uno smottamento della parete, per non essere scorti dal nemico. Ivi attendemmo fino al calar della notte, indi riprendemmo la discesa facendo il minor rumore possibile. Presto ci trovammo presso il dirupo, non molto alto, da cui il lato nord strapiomba nel circo tra la Tofana Prima e la Tofana Seconda.
Anche Bauer non aveva tardato a trovare il canalone dal quale era salito. Gli uomini meno addestrati si aiutarono con la corda e dopo un breve sforzo ci trovammo, con la maggior parte dei nostri Jäger, nel circo. Bisognava osservare il massimo silenzio; cionondimeno gli uomini della retroguardia chiesero a gran voce dall'alto indicazioni di orientamento e altrettanto sonora fu la risposta; un rischioso procedere, a così breve portata delle mitragliatrici italiane! L'operazione durò un pezzo, prima che l'ultimo uomo della retroguardia fosse disceso.
Durante la lunga attesa, mi colse a bruciapelo una violenta febbre, per cui, tremando in tutto il corpo, mi trascinai per ultimo giù per i massi fino al sentiero che dal fondo dell'anfiteatro conduceva al rifugio Tofana. Qui ci incontrammo col tenente Denzel, che con un reparto di maggior consistenza stava salendo per un'operazione bellica. Dopo un breve resoconto sullo svolgimento dell'esplorazione compiuta dalle pattuglie, Bauer ed io proseguimmo la discesa. Un altro piccolo indugio ci causò soltanto il superamento dei 270 piuoli di ferro che permettevano di percorrere in su e in giù la gradinata a picco nella parete rocciosa, mediante la quale l'anfiteatro strapiomba sulla Val Travenanzes.
Ricominciava a piovere allorché noi, all'una antimeridiana del venerdì, facemmo rapporto, nel rifugio Wolf-Glanvell, sulle operazioni della pattuglia.