L'attacco alla Sella del Sief
di Standschütze Anonimo (riportato da L. Viazzi)
Alle 2 del mattino, noi della Sella del Sief vedemmo una compagnia di soldati italiani (probabilmente la 15ª del IV battaglione dell'82° fanteria) che avanzava nella nostra direzione. Quando furono a circa 200 metri giunse l'ordine di aprire il fuoco. Si buttarono tutti a terra cercando di nascondersi fra i sassi. C'era un magnifico chiarore di luna e si vedeva come di giorno. Nessuno di loro poteva muoversi perché li vedevamo bene e subito cominciava la sparatoria. Ogni tanto qualche gruppo cercava di avanzate e così questo fuoco durò sino alle 8 del mattino. Poi, da dietro un sasso si vide una mano che sventolava un fazzoletto bianco. Visto ciò feci fermare il fuoco, ma molti non udirono, e dovetti urlare più volte finché pian piano la sparatoria cessò. Urlai agli italiani che potevano salire, ma nessuno si mosse. Ripetei varie volte l'invito a salire, finché uno si alzò in piedi con un fazzoletto in mano e venne su da noi, con altri 8 che lo seguirono. Si arresero 37 italiani, mentre altri - approfittando della calma - saltarono fra i sassi e ritornarono nelle loro linee. Fra le rocce c'era un ferito che implorava aiuto, ma nessuno gli prestava soccorso. Verso le ore 11 due dei nostri (due ragazzi diciottenni) ed il cappellano andarono giù a raccogliere il ferito. Il suo nome era Emilio Barboi e il cappellano lo portò sulle sue braccia. Subito dopo, ricominciò la sparatoria. Verso le ore 14,30 il nostro capoposto, da noi chiamato Tita Cadorna, venne da me per dirmi: "Tu che sei caporale vai ad avvisare quelli della Croce Rossa che fra quei sassi c'è un altro ferito che chiama aiuto". Cercai d'individuare la posizione esatta e poi andai ad avvisare il cappellano. La sparatoria infuriava senza sosta, e il comandante della Sella del Sief non si assumeva nessuna responsabilità se gli addetti al servizio di sanità fossero scesi a recuperare il ferito. Salvo il caso che ci fossero dei volontari. Sembrava impossibile passare i reticolati, scendere e risalire in mezzo a quel fuoco di fucileria e agli scoppi delle granate. Si combatteva aspramente, e in quella settimana la nostra compagnia ebbe 4 feriti e 2 morti. Mi annunciai volontario, ma da solo potevo fare ben poco, ed anche il cappellano, che sarebbe venuto con me, non bastava. Alla fine partii con un amico e coetaneo, Beppe. Dopo molte segnalazioni e urla, anche le artiglierie cessarono il fuoco, ma le nostre vedette spararono dei colpi perché credevano che volessimo darci prigionieri degli italiani. Quando il ferito ci vide incominciò a tremare come una foglia, implorando: "Perdono austriaco... perdono austriaco...!". Queste due parole le ripetè in continuazione, senza sosta. Lo fasciammo alla svelta e cercammo di metterlo sulla portantina, facendogli coraggio. Perdeva sangue da tutte e due le gambe e dalla testa. Intorno a noi c'erano grossi massi, e fra questi vedemmo spuntare alcune teste che guardavano come lo trattavamo. Eravamo a pochi metri dagli italiani e facemmo finta di non vederli, sebbene a qualche decina di metri qualche fucilata arrivò tra i sassi. Incominciammo a salire ma pesava molto, e ad ogni quindicina di metri bisognava metterlo a terra per riposarci. Lui ripeteva sempre, come una litania: "Perdono austriaco!". Sentì il rumore di un piccolo rivo d'acqua e ci chiese di poterne bere un sorso. Un po' rinfrancato, ci disse che anche lui era stato obbligato a partire per la guerra e non aveva nessuna colpa, come noi. Eravamo sfiniti e per di più, durante tutta la salita, fummo sempre accompagnati da alcuni colpi di fucile e diversi tiri di shrapnels, ma nessuno di noi fu colpito. Quando fummo quasi in cima e i nostri poterono vederci, un vecchio della sanità ci venne in aiuto, e poi un altro. Passati i reticolati le artiglierie di Col Toront ci indirizzarono subito vari colpi e il fuoco riprese più violento di prima. Appena arrivati in trincea, il tenente Anderle chiese del cappellano militare, ma noi l'avevamo perso di vista. Venimmo poi a sapere che l'avevano fatto prigioniero gli italiani. Portammo il ferito al pronto soccorso della "Sparber Kaserne": piangeva di gioia e non finiva più di ringraziarci. Ci disse che al vederci ebbe il timore che fossimo là per finirlo e non per dargli soccorso. Non avrebbe mai creduto che i tirolesi fossero così altruisti e di buon cuore, che aveva due giovani figlie, e che al termine della guerra avrebbe pregato con loro perché anche noi potessimo rivedere le nostre famiglie e avere fortuna e ogni bene dalla vita.