Sistemazione difensiva di Cengia Martini
di Luciano Viazzi
Il sistema difensivo abbozzato fin dal primo giorno d'occupazione fu poi gradualamente perfezionato e proseguito con ininterrotta attività notturna e approfittando delle giornate nebbiose.
La difesa principale era data dal "Trincerone" scavato nel punto più largo ed elevato della cengia, con orientamento da sud-est a nord-ovest e con possibilità di battere numerosi obiettivi, dal Trincerone Vonbank in Valparola al Sasso di Stria e al Settsass. All'inizio vi potevano prender posto solo un paio di plotoni, ma in seguito fu ampliato e completato con altri appostamenti anche in caverna, che si erano resi necessari nel caso si dovessero spostare momentaneamente le armi di reparto per fronteggiare imprevedibili circostanze.
Il "Trincerone" era presidiato da una ventina di fucilieri agli ordini di un ufficiale con due sezioni di mitragliatrici e tre cannoni. Venne anche allestita una finta batteria, simulando tre pezzi rappresentati da altrettanti tronchi d'abete ingegnosamente truccati e convenientemente disposti: essi servirono per trarre in inganno gli artiglieri austriaci che, per alcuni giorni, continuarono a batterli con accanimento degno di miglior causa.
Un centinaio di metri più a ovest venne costruita una "Trincea avanzata", che si sporgeva sulla Valparola come una specie di terrazzo panoramico. Non disponendo in quei primi giorni, né di esplosivo né di attrezzi da scavo per approntare ricoveri ove ripararsi dal tiro delle artiglierie nemiche, le quali distruggevano metodicamente durante il giorno il lavoro febbrilmente eseguito durante la notte, si trasse partito dai roccioni disseminati lungo la posizione. Uno spuntone roccioso ergentesi sull'orlo della cengia verso ovest, denominato poi "Dente Filipponi", divenne un ottimo baluardo difensivo, mentre un'altra roccia scavata in tutta la sua enorme estensione, e detta perciò "Sasso bucato", servì come osservatorio d'artiglieria e ridottino difensivo.
Davanti a questi trinceramenti venne stesa una fitta linea di reticolati, con apertura per il passaggio delle pattuglie, per sbarrare materialmente il passo agli austriaci occupanti la sovrastante "Trincea occidentale".
Sino alla sera del 19 ottobre, si era impiantato a una quarantina di metri dalla "Trincea avanzata" e ad altrettanti da quella nemica, un piccolo posto permanente. Questo però, oltre a essere preso d'infilata dall'artiglieria del Sasso di Stria, correva anche il pericolo di essere tagliato fuori da qualche reparto nemico proveniente dal canalone intermedio, difficoltoso ma non del tutto intransitabile. Da lì, gli austriaci avrebbero potuto scendere indisturbati. Quantunque questo posto di guardia fosse indiscutibilmente utile, si giudicò più prudente ritirarlo. L'occupazione, per molti versi insolita, di un erto e massiccio spuntone (Punta Berrino) e un irregolare ripiano (Cengia Martini) lungo i fianchi scoscesi del Piccolo Lagazuoi diedero luogo a una complessa manovra tattica tendente più che altro a infastidire il nemico nelle sue tranquille retrovie.
Pressoché circondata da ogni parte, la Cengia Martini non poteva, per la sua strana e bizzarra ubicazione, ricevere appoggio dalle altre posizioni italiane, mentre formidabili appostamenti austriaci la dominavano da tre lati. I rifornimenti si dovevano effettuare a spalla, solo di notte e nelle giornate nebbiose. I feriti gravi e i morti bisognava calarli durante l'oscurità nel sottostante abisso, avvolti in teli e coperte o entro sacchi assicurati a funi.
Tuttavia, la sua occupazione rappresentava di per se stessa un non trascurabile successo tattico, mentre eventuali spunti di carattere offensivo le conferivano, se convenientemente sfruttati, un'eccezionale importanza logistico-militare. La cengia in particolare, affacciandosi sull'alto scoscendimento occidentale, dominava a sua volta il Passo di Valparola, punto di transito obbligato per numerosi reparti nemici; prendeva inoltre di fianco e alle spalle le difese avversarie del Sasso di Stria, del Monte Castello e del Settsass, il che consentiva di arrecare un sicuro e continuo appoggio ai reparti della 18ª divisione impegnati sul Col di Lana e sul Sief. Essa costituiva, inoltre, un saldo punto d'appoggio sul fianco del settore di Val Costeana, consentendo un più efficace sbarramento del fondovalle. Oltre ai due plotoni della 228ª cmp., si erano sistemati sulla cengia la 106ª cmp. del "Belluno", alcune sezioni mitragliatrici, due cannoni da 37 mm del 59° rgt. fanteria e un pezzo della 3ª batteria da montagna. Vi erano inoltre saliti due ufficiali osservatori, per approfittare della possibilità che il "Sasso bucato" offriva di controllare gli appostamenti austriaci d'artiglieria, invisibili da altri punti.
Per garantire le spalle, fu collocato anche un posto di guardia costituito da quattro alpini sulla parte orientale della cengia: tuttavia, dopo una ventina di giorni, essendo riusciti a battere efficacemente i vari appostamenti situati alla testata del Rio Andraz e a sbarrare convenientemente con reticolati lo sbocco di questo canalone sulla cengia, si venne alla determinazione di ritirarlo come superfluo. L'assetto difensivo della cengia, venne poi completato con la sistemazione di quel curioso ridottino denominato "Port Arthur" e altri appostamenti come quello situato sulla cengetta a sud della roccia a forma di "Naso del leone", che accolse la sezione mitragliatrici denominata "Sarda" per l'origine isolana dei suoi uomini.
Col passar del tempo, avendo a disposizione più efficienti macchinari, si scavarono delle ottime caverne per potersi riparare in caso di pericolo e si costruirono in zone defilate solidi baraccamenti ove trovarono posto la mensa, l'infermeria, il centralino telefonico, i servizi di fureria e i dormitori.
Finirono col risiedere stabilmente su quella angusta sporgenza di roccia circa duecento persone che si alternavano nei diversi servizi, nei turni di linea, nei presidi al trincerane, ai piccoli posti e nell'attività di pattuglia.
Completava il sistema una ben curata viabilità, il cui mantenimento diveniva estremamente problematico durante l'inverno. Molto spesso si dovevano scavare delle vere e proprie gallerie nella massa di neve caduta o accumulata in paurose valanghe. Dal fondo di Val Costeana, oltre al primo itinerario di accesso lungo il canalone del Rio Andraz, la via seguita dalla 228ª cmp. nell'occupare la posizione, si stabilì un secondo accesso nella speranza che potesse presentare minori difficoltà; ma se il primo era formato da uno stretto sentiero che si sviluppava sull'orlo del precipizio, il cui transito risultava molto pericoloso durante l'inverno quando le rocce erano in permanenza gelate e vi cadevano frequenti valanghe, il secondo attraversava un terreno detritico molto inclinato ed era anch'esso soggetto a continue slavine e caduta di ordigni esplosivi. Il passaggio dei soldati causava inoltre un continuo franamento di pietre e detriti.
Particolarmente difficile e pericoloso risultava il transito nel punto più stretto situato a metà percorso, in quanto lì vi affluiva tutto il materiale che crollava dall'alto prima di precipitare lungo il sottostante salto di roccia. Per facilitare il passaggio in questo punto alto all'incirca quattro metri, si fissò dapprima una corda manilla, che ben presto si consumò e venne poi sostituita da una malagevole scala di legno.
Nonostante gli accennati inconvenienti, venne prescelto il sentiero lungo il canalone di Rio Andraz per tutte le comunicazioni in quanto, pur essendo più faticoso e scomodo, presentava minori pericoli dell'altro. Assai più tardi venne scavata una galleria nella roccia proveniente dal canalone di Punta Berrino.
Per quanto riguarda i collegamenti, i segnali notturni con razzi di pistola Very riuscirono talvolta utili, mentre le stazioni eliografiche non poterono mai funzionare regolarmente. Così l'uso del telefono, i cui fili poggiando sugli scoscendimenti del terreno erano nella parte alta distesi lungo gli spaventosi salti di roccia, costituiva durante il giorno l'unico mezzo di comunicazione col Comando di settore e il solo legame con le posizioni vicine. Malauguratamente, diversi tratti della sua linea venivano distrutti con frequenza dall'esplosione di granate, o travolti da slavine di sassi, o valanghe di neve; così, durante il lungo periodo invernale, il riattamento dei collegamenti telefonici presentava difficoltà non facilmente superabili, in quanto la maggior parte del filo si trovava sepolto sotto molti metri di neve. Oltre a tutto, il persistente e violento infuriare degli elementi atmosferici sconsigliava - senza estrema necessità - qualunque movimento di pattuglie fuori dagli itinerari abitualmente percorribili e condannava inesorabilmente il girovagare di uomini isolati, tanto che si verificava spesso il totale isolamento della cengia, tagliata fuori da ogni contatto con le altre truppe del sottosettore per la durata di parecchi giorni.
A protezione poi dalle offese nemiche fu necessario contendere certe grotte naturali all'invadenza di puzzolenti pipistrelli e talpe, che vi risiedevano indisturbati da millenni. I fastidiosi inquilini furono fatti sloggiare e si dovette rimuovere dal fondo melmoso detriti di guano stalattitico, riparando alla meglio gli ingressi delle grotte contro il freddo e il vento.
Durante la stagione invernale, a causa dello sgocciolamento perenne dell'acqua, si creavano presso gli ingressi delle enormi colonne di ghiaccio che, distrutte col piccone, si riformavano in breve tempo. Anche le pareti interne s'incrostavano e si arabescavano di un denso spessore cristallino, che assumendo le forme più bizzarre interrompeva la monotonia del tetro ambiente dandogli un aspetto di relativa gaiezza. Naturalmente il fantasmagorico spettacolo, che per diversi mesi allietava la vista, finiva poi con l'essere molesto e insopportabile con il disgelo al sopraggiungere della primavera. Tali caverne, malgrado questi inconvenienti ai quali si potè rimediare opportunamente, presentavano il vantaggio di essere gli unici punti completamente defilati e coperti della cengia. Di conseguenza furono subito utilizzate e risultarono veramente provvidenziali. In alcune di esse furono allestiti i magazzini viveri e riserve munizioni, altre servirono come infcrmerie e posti di medicazione con annesso alloggio per gli ufficiali medici, una venne trasformata in chiesetta per celebrare le pratiche religiose e come abitazione per il cappellano, inoltre si trovò anche il modo d'impiantare una sala mensa e ritrovo per gli ufficiali, cui si aggiunsero stanzette-dormitorio. Persino il comandante di battaglione si decise - dopo che il 23 novembre 1915 la sua tenda sistemata presso il "Trincerone" era stata ridotta in cento brandelli da un'esplosione - a occuparne una (e non la migliore) come ufficio e alloggio.
Mentre la comunanza del pericolo rafforza indissolubilmente i vincoli del cameratismo fra commilitoni, la vita in montagna ha, tra gli altri suoi numerosi pregi, quello di affratellare gli animi, sicché lassù non vi erano preclusioni riguardanti le violazioni di domicilio. Accadeva assai di frequente che tali grotte (nessuna esclusa) venissero liberamente invase e affollate in maniera inverosimile da tutti quelli che rimanevano sorpresi all'esterno dalla violenza dei bombardamenti, o in pericolo di essere travolti dalle valanghe.
Lo spirito di osservazione era talmente radicato in tutti, da non lasciarsi sfuggire neppure i più minuti particolari delle vicine posizioni avversarie. Di queste e degli appostamenti circostanti, gli alpini erano ben presto riusciti a conoscere con approssimazione la forza abituale, le armi installate e in modo speciale il calcolo delle distanze: tutti dati che risultarono molto utili per la regolazione del tiro.
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Ma, nonostante i limitati mezzi disponibili, gli occupanti avevano già rimediato nella maniera più razionale alle accentuate manchevolezze della posizione, sfruttando soprattutto risorse e circostanze favorevoli. Malgrado le sensibili perdite, furono in condizioni di resistere con efficacia e con la massima energia alle incursioni nemiche.
Faticosi turni di guardia la notte e il giorno: fissi gli occhi, fino a dolere, là dove un ingannevole addensarsi di ombre poteva celare un agguato e tese le orecchie a discernere nei tonfi della neve, nel soffio della tormenta, il rumore che svelasse movimenti nemici. Di frequente, specie nelle notti nebbiose, uscivano pattuglie di alpini in camice bianco, in perlustrazione verso il trincerone di Valparola per sorvegliare le mosse del nemico.
Non poteva certo apparire una posizione comoda da occupare, né facile da tenere, ma fu occupata e tenuta e rimase ufficialmente nella storia della guerra come "Cengia Martini", dal nome del comandante del "Val Chisone" che ne operò la conquista.