Episodio cavalleresco sul Totenkopf
di Heinrich Hess
Ai primi di settembre, fra le nuove posizioni occupate dagli italiani in Alta Val Fiscalina c'era un torrione roccioso dalla strana forma di teschio, che gli austriaci avevano denominato "Totenkopf" (Testa di morto). Si trattava di un caposaldo avanzato dal quale era possibile dominare alcuni trinceramenti austriaci, che da quel momento non ebbero più requie per i continui tiri di fucileria cui venivano sottoposti. Gli italiani facevano il tiro a segno su tutte le teste che apparivano fuori dai ripari, causando notevoli perdite. Era necessario quindi, agendo di sorpresa, impadronirsi di questa posizione o perlomeno renderla inoffensiva.
L'ufficiale bavarese, pur rendendosi conto che un attacco in quelle condizioni non era un'impresa di poco conto, studiò attentamente un piano d'azione.
La posizione italiana distava un centinaio di metri dalle linee austriache, ed era separata da queste da una larga forcella che di qui cadeva a picco, mentre dalla parte opposta presentava un pendio molto ripido ma accessibile. Seguendo le indicazioni del terreno egli decise che bisognava aggirare il torrione dal di sotto, risalirlo di lato in modo da arrivarci sopra di sorpresa e, naturalmente, di notte. Giunse finalmente l'autorizzazione ad effettuare il colpo di mano.
Quel giorno un vento gelido spazzava le creste delle Dolomiti. Nuvole nere e cariche di tempesta avvolgevano le cime, mentre una fitta e densa nebbia rendeva opaca ogni immagine.
L'ufficiale, infagottato nel lungo pastrano, era seduto tranquillamente davanti ad una piccola baracca, mezzo infilata nel pendio di terriccio e di ghiaie. Così immobile e indifferente sembrava in attesa soltanto che il tempo passasse e giungesse l'ora di muoversi per l'azione. Ad un tratto si alzò pigramente ed entrò nella baracca, chinandosi per passare sotto la bassa porta. Dentro c'erano 8 soldati del Leibregiment: giovani solidi, abituati all'alta montagna, visi bruciati dal sole e dal vento, buoni scalatori. Gli 8 uomini non si mossero: volsero soltanto il capo verso l'ufficiale, in silenzio, con uno sguardo pieno d'ansia. "Stanotte si va, ragazzi, alle 11, siete pronti?" "Jawohl, Herr Oberleutnant", disse uno per tutti. I soldati tirarono un sospiro di sollievo; finalmente si sarebbero mossi dopo tanti giorni di penose incertezze. Non vi furono commenti.
L'ufficiale uscì di nuovo e andò verso la vedetta, rannicchiata dietro una duplice fila di sacchetti di sabbia, in un'apertura dei quali era infilato il lungo Steyer, pronto per ogni evenienza. "Brutta sera, Herr Oberleutnant", disse il vecchio Standschützen senta voltarsi; "non ci si vede a 10 passi, fa un freddo cane e gli italiani sono nervosi e seguitano a sparacchiare nel buio come se temessero un attacco". II tenente non rispose.
Poi venne il rancio: una buona abbondante zuppa calda a base di rape, lardo e patate, e wurstel con crauti e grosse fette di pane integrale. Ci fu anche una doppia razione di schnapp (grappa) come nelle grandi occasioni. Gli uomini ne furono ristorati. Qualcuno accese un sigaro, altri la pipa: c'era ancora abbastanza tempo e si potevano permettere una fumata in santa pace. Ma poco dopo, quasi improvvisamente, cadde il vento e, verso le 9, cominciò a nevicare: una neve fitta e bagnata. "Accidenti", pensò l'ufficiale "e adesso come potremo arrampicarci? Se la neve continua a cadere con questo ritmo bisognerà rimandare l'azione. Sarebbe pazzesco tentare un'uscita con questo tempaccio." Ma, fortunatamente, dopo qualche minuto smise di nevicare e il cielo cominciò a schiarirsi. Negli squarci della nuvolaglia apparve qualche stella, ed un leggero vento prese a spirare da nord. Alle 11 i nove uomini erano pronti.
Armati soltanto di bombe a mano, le tenevano infilate con i lunghi manici di legno nella cintura. Così, dovendo arrampicarsi, erano liberi nei movimenti. Eppoi le bombe a mano potevano essere decisive in un assalto improvviso e imprevisto, non solo per gli effetti dello scoppio ma anche per il rumore che avrebbero fatto.
Uno dopo l'altro, ufficiale in testa, scesero sul rovescio della cresta con una lunga corda doppia che si perdeva nell'oscurità del baratro, interrotto soltanto da una larga cengia che girava sotto la cresta, sino a raggiungere la posizione italiana. La neve caduta, per quanto scarsa, non agevolava certo il cammino ma in compenso non faceva stridere gli scarponi chiodati contro la roccia.
Il gruppo procedette abbastanza velocemente, in silenzio, seguendo la cengia fin dove, a fiuto, ritennero di trovarsi press'a poco sul fianco del Totenkopf. Qui scoprirono un passaggio in una profonda gola, abbastanza abbordabile. La risalirono lentamente con estrema cautela e senza fare rumore. Sarebbe bastata la caduta di un sasso per mettere in allarme gli alpini. Allo sbocco della gola la pendenza divenne più ragionevole. L'ufficiale osservò attentamente il terreno circostante e poi mormorò: "Ah, ci siamo, ecco i reticolati". Con grande pazienza e meticolosità presero a tagliarli, cercando di fare il minore rumore possibile; anche il semplice scatto della tenaglia avrebbe potuto tradirli. In breve riuscirono ad aprire un piccolo varco, attraverso il quale passarono alcuni componenti della pattuglia. Gli altri rimasero di guardia sulla cengia con l'incarico di vigilare alle spalle degli assaltatori e di proteggere la loro eventuale ritirata. Il gruppo di testa avanzò sino a trovarsi a pochi metri dalla posizione italiana. Si vedevano in alto sottili lame di luce che filtravano fra le tavole delle baracche e si udivano voci indistinte. Ora bisognava trovare un passaggio agevole per balzare nella trincea. A poca distanza s'imbatterono in una scala a pioli: una fortuna davvero insperata!
"Dietro di me, piano", disse con un soffio di voce l'ufficiale. In quel mentre, dietro un angolo di roccia, apparve come un'ombra la sagoma di un uomo: l'alpino di sentinella. Egli stava per sollevare il fucile e spianarlo verso gli intrusi, ma non fece in tempo perché l'ufficiale gli si gettò addosso e lottò con lui, a corpo a corpo. Sull'orlo dell'abisso si svolse cosi una brevissima e furibonda colluttazione, senza un grido e senza rumore. Nessuno poteva udire l'ansimare affannoso dei due uomini che cercavano disperatamente di sopraffarsi l'un l'altro. Il fucile dell'alpino cadde nel vuoto sbattendo con fracasso sulle rocce sottostanti. Anche l'alpino, colto alla sprovvista, venne spinto nel baratro. Nel precipitare, lanciò un urlo straziante e diede l'allarme. Dopo alcuni attimi di silenzio allucinante, esplose un chiarore rossastro, spettrale. La luce di un razzo, levatosi tremolante dal piccolo posto italiano, li avvolse. Alcune ombre si stagliarono rapidissime sulle porte delle baracche, ora aperte ed illuminate. E subito una Maxim cominciò a sgranare, rabbiosamente e alla cieca, un intero nastro di pallottole. Gli alpini corsero alle armi ed iniziarono una furiosa sparatoria. La sorpresa è mancata! "Nichts zu machen, zurück!" ordinò il tenente ai suoi uomini, "indietro subito prima che ci scoprano, tanto non c'è più niente da fare".
La pattuglia riuscì a sfuggire al fuoco e a dileguarsi nel buio, ricongiungendosi ai compagni rimasti sulla cengia. Poi, tutti insieme, rifecero il cammino inverso, senza più la preoccupazione di farsi scoprire. Nessuno avrebbe potuto vederli e tanto meno sentirli con il baccano che facevano gli alpini lassù. Anche un cannoncino da 65 mm aprì il fuoco contro i trinceramenti austriaci, squarciando l'oscurità della notte con vampe balenanti.
Verso l'alba la pattuglia riuscì a tornare, incolume, alla sua base. L'ufficiale, fatti rientrare in baracca i suoi uomini, esausti per la fatica e la tensione, si mise accanto alla sentinella — avvoltolato in una coperta — per essere pronto ad ogni evenienza. Gli italiani avrebbero potuto effettuare un'azione di rivalsa per parare altre eventuali sorprese. La giornata si annunciava splendida, il ciclo limpido e terso come un cristallo metteva in risalto la meravigliosa chiostra di cime che facevano corona alla Val Fiscalina. L'ufficiale si addormentò profondamente.
Dopo qualche tempo il soldato di guardia lo svegliò bruscamente per avvisarlo che sulle rocce del Totenkopf c'era qualcuno che si lamentava: certamente l'alpino caduto nella notte. L'ufficiale rivide, come in un incubo, gli occhi scintillanti e atterriti dell'alpino che, egli stesso, aveva scagliato nell'abisso. Con questo tremendo pensiero in mente, egli balzò in piedi e guardò attraverso la feritoia. Ma certo, eccolo laggiù, disteso esanime su un ripiano roccioso, il soldato nemico che gli ha fatto fallire l'azione così ben congegnata. Evidentemente era ferito, ed era rinvenuto da poco tempo, perché nessuno — prima di allora — l'aveva sentito. Giaceva con gli occhi chiusi e di tanto in tanto cercava di rialzarsi da terra, senza riuscirvi. In quel momento non era più un nemico ma un povero essere umano, un valoroso soldato, che soffriva e forse stava morendo. L'ufficiale bavarese non ci pensò due volte ed usci allo scoperto, apprestandosi a portare soccorso al poveretto. "Ma cosa fa, Herr Oberleutnant? Quelli sparano", gli gridò la sentinella. Il tenente non rispose. Figurarsi se poteva succedergli qualcosa... anche gli italiani avrebbero ben capito le sue pacifiche intenzioni. Ed infatti non successe nulla: in quel momento nessuno pensava più alla guerra. Gli alpini avevano anch'essi udito i lamenti e si apprestavano a portare soccorso al loro commilitone ferito, che ormai credevano morto e finito chissà dove. Così non si allarmarono nel veder discenere, disarmato e con straordinaria sicurezza, l'ufficiale nemico in missione di pace. Italiani ed austriaci si sporgevano tutti dai loro ripari per osservare trepidanti i movimenti dell'ufficiale che si stava avvicinando cautamente al ferito. Senza alcuna esitazione, con un salto, egli superò una profonda spaccatura, che certo non gli avrebbe permesso di ripetere quel passaggio portando sulle spalle un ferito. Ma l'ufficiale non sembrava preoccuparsene: aveva di certo già in mente un suo piano per risolvere la situazione. Finalmente raggiunse il ferito e si chinò su di lui per rendersi conto del suo stato. Il giovane alpino aprì i grandi occhi scuri sul volto pallidissimo, con una espressione quasi serena anche se contratta dal dolore. Alla vista del soccorritore socchiuse le labbre riarse e mormorò con un fil di voce: mamma! L'altro capi che il ferito invocava la sua mutter, e pensò — per un attimo — alla sua mamma lontana che, forse, in quel momento stava pregando per lui. Poi lo sollevò delicatamente con entrambe le braccia e se lo caricò sulla schiena, tenendolo per un braccio traverso il collo: accidenti se pesa questo ragazzo, con il cappotto, con gli scarponi e con le giberne ancora piene di caricatori. L'alpino si lamentava pochissimo, quasi se ne vergognasse, ma si capiva che doveva avere le ossa fracassate. Il tedesco, un tipo robusto, cominciò a risalire la china, con passo deciso e tranquillo, trasportando il dolorante fardello. Ogni sensazione di pericolo era sparita, sopraffatta dalla preoccupazione del salvataggio. Finalmente raggiunse la trincea italiana che aveva i cavalli di Frisia aperti ed i sacchetti di sabbia rimossi per lasciarlo passare. L'ufficiale tedesco passò fra gli alpini che lo stavano osservando come un'apparizione miracolosa, e adagiò pian piano il ferito sul terreno, affidandolo alle cure dei compagni. Quando si risollevò, trovò davanti a lui l'ufficiale comandante della posizione, il tenente De Luca, che tendendogli la mano disse: — Grazie camerata tedesco! L'altro capi subito che "grazie" voleva dire "danke" e "camerata" "kamarad" e strinse la mano che gli veniva tesa. Poi, entrambi, si guardarono senz'odio e si sorrisero. Gli alpini che si trovavano intorno, senza che nessuno l'avesse ordinato, si erano irrigiditi sull'attenti e salutavano con la mano aperta e ferma sulla larga tesa del cappello. In quei visi legnosi e duri affiorava una commozione profonda: molti avevano gli occhi lucidi e qualche mano tremava per l'emozione. Forse qualcuno avrebbe voluto abbracciare, se lo avesse potuto, il cavalleresco nemico. Nessuno parlava! Il tedesco tenne la sua mano in quella dell'italiano per qualche secondo, poi retrocesse lentamente. I due ufficiali scesero insieme nella terra di nessuno sino alla cresta rocciosa dove si era svolto l'attacco della sera precedente, indi si lasciarono senza dirsi più nulla. Tanto non si sarebbero capiti, eppoi non c'era più nulla da dire: si erano già detto tutto con la stretta di mano e con lo sguardo. L'ufficiale tedesco riprese ad arrampicare, agile e svelto, in direzione della sua trincea. Appena giuntovi diede uno sguardo all'indietro e vide ancora il tenente De Luca, irrigidito nel saluto militare. Il tedesco fece un largo cenno con la mano all'italiano che, a sua volta, risalì verso la sua posizione.