La valanga di Cima Bos
di Enrico Jahier
Il battaglione "Antelao", verso la metà del mese di settembre 1916, venne trasferito nel Vallone dei Bòs per completare la costruzione di una carrareccia di collegamento fra la Strada delle Dolomiti e Forcella Bòs. Presa quota sul versante sinistro del vallone, la strada andava a cozzare sullo sperone d'angolo di quella parete, lo attraversava con una cinquantina di metri di galleria, s'incuneava sempre più nel vallone stesso e costeggiando ancora l'impervio fianco di Cima Bòs guadagnava nuovamente quota con qualche tornante e conduceva rapidamente alla forcella.
Il luogo prescelto per l'accampamento si estendeva lungo il declivio incombente sul lato sinistro della strada, proprio in corrispondenza dell'imbocco della galleria; una posizione un pò scoscesa, ma ben soleggiata e protetta dai venti del nord dallo strapiombo meridionale della montagna. A metà accampamento, a breve distanza dalla parete rocciosa e in senso longitudinale al declivio, avevamo fabbricato e inaugurato, il 27 settembre, una baracca per la mensa e la cucina di battaglione, mentre un luogo privilegiato sul piano di una roccia sovrastante la gallerìa era stato riservato al posto di medicazione-infermeria. Il lavoro procedeva bene soprattutto perché, almeno agli alpini minatori e zappatori, era ancor più familiare dell'affardellamento dello zaino. Si trattava di scavare, a monte, il tracciato nella roccia, ammucchiarne e selezionarne i detrìti adatti ai muretti a secco, da quelli destinati alla massicciata e al battuto di pietrisco. La strada si delineava ogni giorno più alpestre, funzionale e pittoresca, nei colori variegati della dolomia recentemente spaccata. Le mattinate erano fresche, progressivamente rugiadose fino alle prime nebbie autunnali e infine, a quota 2.200, alle prime brinate, al nevischio, alla neve.
Dopo la luna piena del 10 ottobre, le mie lettere dal fronte registrano frequenti bufere di vento e di neve. Con il passare delle settimane, la neve cresceva imperturbabile e silenziosa sotto la cappa opprimente, finché un giorno, come suole accadere, avemmo l'improvvisa sensazione di trovarci in balìa dell'una e dell'altra. Non si riparava a spalare: gli stessi baranci e le sparute conifere che ci avevano rassicurato stavano scomparendo sotto il peso insopportabile; una visita al mio canalone me l'aveva rivelato inesplorabile, soverchiante, minaccioso.
Avevo dato l'allarme al capitano Dedini e credo che il comando di battaglione l'avesse segnalato a quello superiore, con esito, si diceva, negativo. Sembra che il colonnello Tarditi avesse risposto, e con ragione, che gli alpini sono fatti per stare fra la neve. "Non sotto però", aveva ribattuto il nostro comandante.
Un diffuso senso di preoccupazione e anche di contrarietà serpeggiava la mattina del 9 novembre, quando ci sentimmo soli, succubi dell'ignoto e costretti a dare ordine di abbandonare le tende e rifugiarsi nella nuda e inospitale galleria. Ma l'appetito, ancorato anch'esso all'inconscio, ci trovò tutti e trenta puntuali alle 7 di sera intorno al tavolo della mensa. Ricordo il capitano Dedini quasi dirimpetto a me, con le spalle rivolte a monte quando, spinto da non so quale molla misteriosa del mio istinto montanaro, mi alzai sull'attenti per congedarmi e raggiungere i soldati. "Poteva finire di cenare" sentii dire dal maggiore mentre aprivo la porta. Era già buio, ma si distinguevano ancora gli scalini per la discesa. Stavo domandandomi l'origine di uno strano, crescente alito di vento, quando mi sentii mancare i piedi e gettare bruscamente all'indietro. Intravedevo contemporaneamente sulla mia destra l'intero declivio dell'accampamento scorrere con me verso il basso come una fiumana turbolenta, solcata o sorvolata da enormi palle di neve rimbalzanti come fantasmi. L'istinto mi suggerì di mantenermi a galla a qualsiasi costo, manovrando piedi e braccia in quella posizione supina, coi piedi rivolti in basso e senza scostarmi dalla parete, il cui attrito poteva in qualche modo frenare il rapido corso della discesa; in ogni caso permettermi poi forse di non oltrepassare la strada, mia unica ancora di salvezza. Ma fu la galleria a trattenermi, perché la valanga, finito l'argine della parete, dilagò sul lato sinistro ormai libero invadendola furibonda, penetrandola e riempiendola ampiamente all'interno.
Avevo la neve stretta attorno sino alle spalle, ma ero in piedi e respiravo. Subito però, mi balenò l'idea della baracca. Lottai con la massa che mi stringeva, mi liberai e m'inoltrai nella galleria gridando a squarciagola.
Intravedevo nell'oscurità le due file dei corpi distesi, avvolti nei cappotti, ma immobili e coperti da uno spesso strato bianco prodotto dal potente risucchio d'aria che si era prodotto là dentro. Sembravano annichiliti. Cominciai a perdere le staffe e a sferrare pedate, quando mi resi conto che non erano della 96ª: non mi conoscevano, e, insonnoliti e gelati coni erano, dovevano avermi preso per un pazzo. Due ombre si avvicinavano dal fondo: il mio attendente Cella e l'aiutante di battaglia Pivirotto mi avevano sentito ed erano accorsi per primi. Si trattava ora di aprirsi un varco e risalire. Usciti a fatica dalla strada, l'impresa fu facile, perché sulla rampa dell'accampamento non c'era più neve.
Sentivo dall'alto la voce penetrante di Reverberi e poco dopo li trovammo sul posto della baracca scomparsa, quasi tutti in piedi che si aiutavano fra loro. La resistenza opposta dalle travi, fatali al povero Azzano, aveva impedito che fossero travolti e trascinati con me. Sette erano feriti, ma solo il medico Cirillo giaceva inerte e cianotico con la forchetta piantata profondamente nel mento.
Poco dopo, l'ospitale infermeria, miracolosamente intatta, illuminata e riscaldata, accoglieva tutti, feriti e più o meno colpiti da shock, rifocillandoli e sottraendoli alla visione sensazionale della notte orrenda e insidiosa. Perché al di fuori, nel Vallone dei Bòs, la situazione permaneva infernale. Aveva ripreso a nevicare; era calata e si era diffusa una nebbia spessa e accidiosa, che riduceva la visibilità al minimo; dal fondovalle giungevano colpi di fucile e invocazioni disperate; a metà costa verso la forcella, altre scariche d'arma da fuoco e dalla forcella medesima, a intervalli, il suono sinistro di un corno che cercava probabilmente di indicare la giusta direzione ai dispersi. Si trattava evidentemente delle corvee di viveri, legna e paglia, attardate dalla bufera e bloccate dalle valanghe in qualche punto della mulattiera. Ma su tutto dominava l'angoscia per Cunico, sepolto e forse agonizzante sotto quell'enorme massa compatta che, annullata in pochi secondi ogni opera dell'uomo, aveva ristabilito uniformemente il profilo primitivo della montagna.
Avevo deciso di concentrare per il momento ogni sforzo sulla strada, sembrandomi che oltre questa, giù per il vallone, le probabilità di sopravvivenza e di recupero fossero minime. Ma ero l'unico ufficiale disponibile; non avevamo una torcia e disponevamo di pochissimi badili scampati al mucchio degli attrezzi rimasti sepolti. Ero riuscito a raggranellare due squadre di volonterosi che spalavano un po' alla cieca, ma affannosamente l'una verso l'altra ai due estremi dell'esteso fronte della valanga, procedendo prima sulla metà a valle, dove la neve era meno consistente e di più agevole spalatura. Ma neppure una tavola della baracca era affiorata e il dubbio di uno scavalcamento della strada non si era dileguato.
Verso la mezzanotte, tutta la metà della strada a valle era sgombra e attaccavamo quella a monte. Sulle prime ore del mattino, un colpo di pala cozzò in una scarpa. Era bocconi, un po' rannicchiato, ricoperto di uno strato di neve di poche decine di centimetrì che sembrava impossibile non avesse potuto scuotersi da dosso: esanime e freddo ormai. Dal volto pallido, quasi adolescente, non trasparivano segni di sofferenza né di angoscia. In quella situazione, per quanto non presentasse ferite apparenti, era facile supporre ch'egli fosse stato travolto già tramortito da un colpo simile a quello che aveva ucciso Azzano. Appartenevano tra l'altro alla stessa compagnia e doveva essergli di conseguenza vicino di tavolo.
Ma ci sono sconfitte che si dimenticano e altre che ci angustiano per tutta la vita. Non posso dimenticare che, se avessi scavato subito un camminamento sotto la scarpata a monte, l'avrei ritrovato, non so se vivo, ma certamente qualche ora prima.
Il giorno dopo (10 novembre 1916), il battaglione lasciava i luoghi funesti per scendere a Pocol a riassestarsi. Niente fanfara: la lunga fila rassegnata e silenziosa aveva poca voglia di cantare e manifestava il suo cordoglio con l'intimo raccoglimento di chi, prima ancora degli onori ufficiali resi solennemente ai nostri due morti l'11 successivo nel cimitero di guerra, riviveva la tragica avventura nella mente e nel cuore per conservarla scolpita per sempre nei recessi dell'anima.