Bellavita Albino
Soldato portaferiti
9ª Compagnia di Sanità
Nato nel 1886 a Porano (TR)
Morto il 16 giugno 1920 ad Orvieto (TR)
Decorazioni
Medaglia di Bronzo
Sotto il fuoco nemico, che rendeva oltremodo pericoloso qualsiasi tentativo di soccorso, attendeva
con abnegazione e coraggio al proprio servizio di portaferiti, rimanendo egli stesso gravemente
ferito.
Sasso di Stria, luglio 1915; Col dei Bois, 21 luglio 1915
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
«Nel dì primo marzo del corrente anno fu esposto preso questo ufficio di consegna un bambino di
sesso maschile dell’età presuntiva di giorni uno avvolto in lacere pezze ...»: così, quel
giorno del 1886, nel Comune di Porano, in Provincia di Orvieto, viene registrata la nascita di
Albino Bellavita, figlio di ... Nessuno.
Non appena raggiunta la giusta età, quella in cui ci si può rendere in qualche modo utili, Albino
passa dalle cure dell’orfanatrofio a quelle della famiglia di Domenico Barbino, un contadino che,
in cambio del suo lavoro, accetta di dargli un letto per dormire e qualcosa da mangiare. Deve
comunque ritenersi fortunato perché in quella casa, a Torre San Severo, oltre alla possibilità di
mantenersi, trova anche l’affetto familiare e l’opportunità di frequentare la scuola fino alla
quinta elementare.
All’età di vent’anni parte per il servizio militare ed a Viterbo, il 4 novembre del 1906, lo
aggregano al 18° reggimento di Fanteria. Albino è un ragazzone di buona salute e di buon cuore che
sa farsi ben volere anche dai superiori, compreso l’Ufficiale medico che lo assegna ai servizi di
infermeria. Quando poi, il 6 maggio del 1910 viene richiamato per istruzione, si sente davvero
onorato di poter entrare a far parte della 9ª compagnia di sanità con l’incarico di portaferiti.
Tornato a casa e resosi in qualche modo economicamente autonomo, decide che è venuta l’ora di
metter su famiglia ed il 18 febbraio del 1911 sposa quella ragazza dei Magrini, una famiglia di San
Vito in Monte, con la quale si vede ormai da un po’ di tempo.
La guerra con l’Austria è ormai vicina ed il 14 maggio del 1915 Albino, richiamato alle armi, è
costretto a lasciare la sua Eugenia per partire anche lui, come tanti altri, per il fronte.
Lo mandano in montagna, sulle Dolomiti, dove fin da subito è chiamato a trasportare con la sua
barella i compagni feriti che “si lamentano, chiamano la mamma, urlano aiuto, poveri ragazzi”.
E lui cerca di consolarli, li medica alla bell’e meglio e li trasporta al posto di soccorso. Va
avanti e indietro, veloce, a testa bassa, tra gli scoppi delle bombe, schivando le fucilate,
pregando che non succeda anche a lui di dover essere trasportato in barella da qualcun altro.
Alla fine di giugno Albino si trova in Val Costeana dove il generale
Cantore ha assunto il comando della Divisione e intende scatenare
un’offensiva contro la Val Travenanzes impiegando truppe alpine e fanteria. Il 5 luglio ed i giorni
seguenti la battaglia infuria, con l’artiglieria che batte i presidi austriaci ed il giorno dopo e
quello dopo ancora, con gli alpini che muovono all’attacco, prima per azioni dimostrative, poi a
ranghi completi. Molti cadono ed Albino con la sua barella fa quel che può, per dovere e per
carità, ma specialmente per l’amicizia che lo lega a tutti quegli sfortunati compagni. Ben piazzati
in posizione dominante, protetti da poderosi macigni, gli austriaci tengono in pugno la situazione.
Ancora all’attacco, ancora sangue che scorre fin quando, finalmente, tra il 10 e l’11 luglio la
tanto contesa Forcella Bos viene conquista.
Pur costretti ad arretrare, gli austriaci contrattaccano ed in quel disgraziato mercoledì, il 21
luglio del primo anno di guerra, il portaferiti Bellavita viene colpito da una fucilata che non
tiene conto né della barella che si trascina al seguito, né della fascia al braccio che, con
evidenza, dimostra la sua funzione.
“Non tutte le disgrazie vengono per nuocere”, pensa lui, perché, grazie a quella ferita,
Albino può rivedere la sua Eugenia e starle vicino per tutto il periodo della convalescenza. Poi
torna in prima linea, ma il suo servizio dura ben poco perché i postumi della ferita sono più gravi
di quello che ad un primo momento era sembrato. Torna a casa, combattuto tra la gioia di tornare in
famiglia ed il dispiacere di lasciare lì a combattere i suoi compagni senza avere la possibilità di
dar loro coraggio ed assistenza.
Nel ’17 gli annunciano che è stato decorato con una medaglia di bronzo.
Quel bronzino è un onore, certo, ma lui piuttosto avrebbe preferito essere nel pieno delle forze
per poter compiere ancora il suo dovere. Ed invece, eccolo lì a fare come può quel poco che può. La
guerra finisce ma non per Albino: lui continua a battagliare contro i suoi malanni fino al 16
giugno del 1920 quando, all’ospedale di Orvieto, tra le braccia della sua Eugenia, è in ultimo
costretto ad arrendersi.
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Nato nel 1886 a Porano (TR)
Morto il 16 giugno 1920 ad Orvieto (TR)
Decorazioni
Medaglia di Bronzo
Sotto il fuoco nemico, che rendeva oltremodo pericoloso qualsiasi tentativo di soccorso, attendeva con abnegazione e coraggio al proprio servizio di portaferiti, rimanendo egli stesso gravemente ferito.Sasso di Stria, luglio 1915; Col dei Bois, 21 luglio 1915
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
«Nel dì primo marzo del corrente anno fu esposto preso questo ufficio di consegna un bambino di
sesso maschile dell’età presuntiva di giorni uno avvolto in lacere pezze ...»: così, quel
giorno del 1886, nel Comune di Porano, in Provincia di Orvieto, viene registrata la nascita di
Albino Bellavita, figlio di ... Nessuno.
Non appena raggiunta la giusta età, quella in cui ci si può rendere in qualche modo utili, Albino
passa dalle cure dell’orfanatrofio a quelle della famiglia di Domenico Barbino, un contadino che,
in cambio del suo lavoro, accetta di dargli un letto per dormire e qualcosa da mangiare. Deve
comunque ritenersi fortunato perché in quella casa, a Torre San Severo, oltre alla possibilità di
mantenersi, trova anche l’affetto familiare e l’opportunità di frequentare la scuola fino alla
quinta elementare.
All’età di vent’anni parte per il servizio militare ed a Viterbo, il 4 novembre del 1906, lo
aggregano al 18° reggimento di Fanteria. Albino è un ragazzone di buona salute e di buon cuore che
sa farsi ben volere anche dai superiori, compreso l’Ufficiale medico che lo assegna ai servizi di
infermeria. Quando poi, il 6 maggio del 1910 viene richiamato per istruzione, si sente davvero
onorato di poter entrare a far parte della 9ª compagnia di sanità con l’incarico di portaferiti.
Tornato a casa e resosi in qualche modo economicamente autonomo, decide che è venuta l’ora di
metter su famiglia ed il 18 febbraio del 1911 sposa quella ragazza dei Magrini, una famiglia di San
Vito in Monte, con la quale si vede ormai da un po’ di tempo.
La guerra con l’Austria è ormai vicina ed il 14 maggio del 1915 Albino, richiamato alle armi, è
costretto a lasciare la sua Eugenia per partire anche lui, come tanti altri, per il fronte.
Lo mandano in montagna, sulle Dolomiti, dove fin da subito è chiamato a trasportare con la sua
barella i compagni feriti che “si lamentano, chiamano la mamma, urlano aiuto, poveri ragazzi”.
E lui cerca di consolarli, li medica alla bell’e meglio e li trasporta al posto di soccorso. Va
avanti e indietro, veloce, a testa bassa, tra gli scoppi delle bombe, schivando le fucilate,
pregando che non succeda anche a lui di dover essere trasportato in barella da qualcun altro.
Alla fine di giugno Albino si trova in Val Costeana dove il generale
Cantore ha assunto il comando della Divisione e intende scatenare
un’offensiva contro la Val Travenanzes impiegando truppe alpine e fanteria. Il 5 luglio ed i giorni
seguenti la battaglia infuria, con l’artiglieria che batte i presidi austriaci ed il giorno dopo e
quello dopo ancora, con gli alpini che muovono all’attacco, prima per azioni dimostrative, poi a
ranghi completi. Molti cadono ed Albino con la sua barella fa quel che può, per dovere e per
carità, ma specialmente per l’amicizia che lo lega a tutti quegli sfortunati compagni. Ben piazzati
in posizione dominante, protetti da poderosi macigni, gli austriaci tengono in pugno la situazione.
Ancora all’attacco, ancora sangue che scorre fin quando, finalmente, tra il 10 e l’11 luglio la
tanto contesa Forcella Bos viene conquista.
Pur costretti ad arretrare, gli austriaci contrattaccano ed in quel disgraziato mercoledì, il 21
luglio del primo anno di guerra, il portaferiti Bellavita viene colpito da una fucilata che non
tiene conto né della barella che si trascina al seguito, né della fascia al braccio che, con
evidenza, dimostra la sua funzione.
“Non tutte le disgrazie vengono per nuocere”, pensa lui, perché, grazie a quella ferita,
Albino può rivedere la sua Eugenia e starle vicino per tutto il periodo della convalescenza. Poi
torna in prima linea, ma il suo servizio dura ben poco perché i postumi della ferita sono più gravi
di quello che ad un primo momento era sembrato. Torna a casa, combattuto tra la gioia di tornare in
famiglia ed il dispiacere di lasciare lì a combattere i suoi compagni senza avere la possibilità di
dar loro coraggio ed assistenza.
Nel ’17 gli annunciano che è stato decorato con una medaglia di bronzo.
Quel bronzino è un onore, certo, ma lui piuttosto avrebbe preferito essere nel pieno delle forze
per poter compiere ancora il suo dovere. Ed invece, eccolo lì a fare come può quel poco che può. La
guerra finisce ma non per Albino: lui continua a battagliare contro i suoi malanni fino al 16
giugno del 1920 quando, all’ospedale di Orvieto, tra le braccia della sua Eugenia, è in ultimo
costretto ad arrendersi.