Nazione Berrino Luigi

Grado Capitano

Mostrina  3° Alpini, 230ª cp. battaglione Val Chisone

Ritratto

Nato il 22 giugno 1877 a Bagnolo Piemonte (CN)

Morto in combattimento il 25 ottobre 1915 presso il Piccolo Lagazuoi

Decorazioni

Decorazione Medaglia d'Argento

Rimasto solo ufficiale della compagnia, la condusse brillantemente contro la trincea avversaria assegnatagli per obiettivo. Ferito al viso, nonostante la copiosa perdita di sangue, non si portò al posto di medicazione fintantoché non ebbe date le opportune disposizioni per la resistenza. Essendo, poi, stato ordinato alla compagnia di ripiegare, ricevute le prime cure, ritornava sulla linea, vi raccoglieva il reparto e uomini di altra compagnia, guidando tutti in posizione sicura. In altra circostanza, mentre rincorava ed animava i suoi alla resistenza, cadde colpito a morte.
Piccolo Lagazuoi, 25 ottobre 1915

Note biografiche (Archivio Franco Licini)

Tratto da "L'Alpino", articolo di E. Martini

Maturo d'anni e d'esperienza, ma sempre giovane d'impeto e di baldanza, superava ogni difficoltà con animo sereno e tranquillo. Dal padre, che partecipò volontario alle prime guerre d'indipendenza, ereditava, insieme a molte altre elette doti, un'audacia che rasentava quasi la temerarietà. Sapeva così trasfondere, massime con la magica virtù dell'esempio, tutto il suo entusiasmo nei dipendenti, che ben volentieri si affidavano a lui.
Reduce dal Carso, ove si era già assai distinto, giungeva nella zona delle Tofane il 28 agosto 1915. Affidandogli il comando della 230ª Compagnia del Val Chisone, incominciava con l'offrirsi tosto volontario per numerose e pericolosissime ricognizioni, nelle quali riusciva sempre di particolare utilità.
Allora il Castelletto, guarnito da cacciatori dell'Alpenkorp germanico, abbondantemente provvisti dei mezzi più perfezionati e potenti, costituiva un permanente ed ossessionante incubo pel nostro settore di Val Costeana, in mezzo al quale trovavasi incuneato. Si rendeva addunque indispensabile la sua conquista da parte nostra.
Il 28 settembre e la notte sul 17 ottobre 1915 ci fu così ordinato di sferrare, ma senza i necessari preparativi, attacchi di viva forza contro il rovescio di questo formidabile baluardo naturale. Ambedue le volte poi il Berrino era incaricato della parte più importante dell'azione, che disimpegnava con perizia e slancio. Al principio del primo attacco, e cioè verso le prime ore del mattino, rimase ferito alla bocca da una scheggia di granata, che gli asportava tre denti, danneggiandogliene altri e rendendogli assai malconce le gengive. Nondimeno, a dispetto dell'inevitabile strazio e ad onta dell'abbondante emorragia, seguitava a rimanere impavido al posto d'onore. Da questo non si allontanava, sebbene anche febbricitante a causa della ferita, neppure al termine della lotta. Di fatti, durante l'intiera notte successiva dirigeva, malgrado il persistente fuoco di mitragliatrici e di fucileria, il servizio di raccolta dei feriti e degli uccisi, sparsi sul lungo tratto di quell'intricato ed insidiosissimo terreno.
Entrato il mattino seguente all'ospedaletto da campo 034 di Pocol per curarsi, ne usciva, non completamente guarito, l'8 ottobre successivo. Ossia non appena venne a conoscenza, che prestissimo si sarebbe rinnovato l'assalto contro il medesimo obiettivo. Nei pochi giorni che gli rimanevano ancora disponibili, eseguiva diverse ricognizioni per esaminare i tratti più opportuni per la scalata dell'alta muraglia di roccia del Castelletto. Anzi, in diversi punti in cui non esistevano i reticolati, perché l'aspro terreno era ritenuto inaccessibile, si spingeva, con due alpini, ad osservare quasi a contatto degli appostamenti del vigile nemico. Comprendeva in tal modo, che la sua compagnia avrebbe dovuto, per conseguire con certezza il compito assegnatole, penetrare sino dal principio della lotta, decisamente ed a guisa di cuneo, tra Sasso Misterioso ed il Castelletto. Avrebbe così, in un attimo e col minimo dei sacrifici, reciso nel punto più delicato e vitale, la linea avversaria, che in tal modo sarebbe venuta a risultare divisa in due parti.
Lo stesso progetto lo riassumeva quindi in una espressione tanto semplice e scultorea, che rimaneva famosa nell'intero nostro settore. In quella cioè del "risoluto intrufolamento" tra i due punti più interessanti della difesa austriaca. Ma tale sapiente concezione non si poté purtroppo attuare, perché gli Jäger germanici, avevano frattanto rese continue le loro due successive linee di reticolati. Nel contempo si erano pure data cura di rinforzare con mastodontici cavalli di frisia e con numerosi e complicati grovigli di grosso filo di ferro spinoso e crudo. Su queste, anche a causa del terreno molto accidentato e ricoperto di neve, non si poteva, né con l'azione dell'artiglieria, né con quella dei tubi di gelatina esplosiva, aprire neppure uno degli indispensabili varchi d'irruzione. Il Berrino stesso, illudendosi di poter conseguire alla fine l'agognato scopo, si ostinava e si affannava invano, con le mani dolenti e sanguinanti, per tagliare i grossi fili, mercé le apposite pinzette.
Frattanto, mentre nell'ansiosa ed attiva attesa, eravamo costretti a rimanere affatto scoperti, gli Jäger ci facevano cadere, dai loro sovrapposti appostamenti, un'intensissima pioggia di fuoco. Così, impossibilitati non solo ad avanzare, ma anche a reagire alle offese, ci trovammo alla fine nella dura necessità di sospendere l'attacco.

Il Berrino avrebbe dovuto rientrare il giorno seguente all'ospedaletto 034 per ultimarvi la cura. Tuttavia vi rinunziava ancora momentaneamente per partecipare, nella notte successiva, all'azione contro il Piccolo Lagazuoi. In tal guisa, a furia di procrastinare, terminò, per un eccesso d'amor proprio, col guarnire una delle aspre quote, oltremodo moleste al nemico, di cui ci impadronimmo su quell'imponente massiccio roccioso. Ossia la punta più orientale di questo, che sebbene riuscisse quindi fatale alla vita del Berrino, doveva, a titolo di gloria, passare alla posterità con il cognome di lui.
Mancandoci materiali di mina, per lo scavo della roccia, si rendeva indispensabile costruire i blindamenti in rilievo. Siccome poi sul posto non trovavasi neppure terriccio e legname, egli dispose che si incominciasse a trasportarli subito a spalla dal fondo valle. Ma frattanto faceva, per forza di cose, innalzare, con sacchetti ricolmi in prevalenza di neve e di ghiaccio, ben pigiati, una piccola ridotta per una decina d'uomini e per due mitragliatrici. Però l'avversario era deciso a riprenderci ad ogni costo la posizione, prima che fosse messa in piena efficienza. Avveniva così che questa incominciava verso le 12 del 25 ottobre 1915, ad essere improvvisamente investita da un nutrito tiro di ogni arma e calibro. Nel contempo diverse bombe a grande esplosivo scoppiavano persino in mezzo al grosso della 230ª Compagnia, accampata nel piccolissimo pianoro a S.O. della ridottine, che si riteneva defilato e sicuro. La vista degli uccisi, gli strazianti lamenti dei feriti ed il fondato timore, che ivi continuassero a cadere altre bombe, generarono, tra i rimanenti, un certo orgasmo, che, data anche l'eccezionale ristrettezza dello spazio, avrebbe pure potuto tradursi in confusione. Il Berrino, intuendo ciò, accorreva tosto, dalla ridottine, ove trovatasi di già, in mezzo al grosso della compagnia. Però, quando con l'abituale calma impartiva gli ordini per fronteggiare l'imminente attacco, veniva intensificato, sull'intiera montagna, l'uragano di ferro e di fuoco, che ci causava presto sensibilissime perdite. Tra queste, quella dello stesso Berrino, sfracellato da tre bombe.
Tuttavia, se in quella terrificante giornata la posizione fu salva, si deve soprattutto a lui. Ossia alle sue sagge disposizioni, che poterono essere messe subito ad effetto, ed anche alla sua uccisione, perché i suoi alpini si proposero di vendicarlo, battendosi con maggiore slancio ed ardore.

Alla memoria di lui fu concessa una delle due medaglie d'argento al valore, cui fu proposto. Ma il suo cognome resterà eternamente inciso sulla sommità della punta, che ben seppe il suo eroismo. Di quella tanto contrastata punta cioè, le cui rocce rimasero abbondantemente bagnate dal suo nobile e generoso sangue e da quello di numerosissimi altri valorosi nostri ed avversari.