Dall'O Domenico
Soldato
7° Alpini, battaglione Belluno
Nato il 16 maggio 1885 a Puos D'Alpago (BL)
Morto il 6 novembre 1967 a Belluno
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
Domenico Dall'O, nato a Puos d'Alpago, in provincia di Belluno, il 16 maggio del 1885, è l'ultimo
dei tredici figli di Gioacchino e Antonia Baldovin. La numerosa famiglia risiede nella frazione di
Sitran dove, fin da ragazzo, Domenico contribuisce al lavoro nei campi frequentando intanto le
scuole elementari a Puos. E' ancora giovanotto quando, come tanti altri suoi compaesani, è
costretto ad emigrare: "Una bocca in meno da sfamare e qualche soldo in più che arrivava a casa
per aiutare la famiglia...", commentano oggi i suoi figli, tutti e tre viventi: Celeste il
maggiore, Gioacchino reduce di Russia ed Antonia che ha trascorso gran parte della sua vita a fare
la maestra elementare.
Dunque, Domenico trova lavoro dalle parti di Berna dove viene assunto come manovale nei cantieri di
costruzione delle ferrovie svizzere. Rientra in Italia per passare la visita di leva e nel suo
foglio matricolare annotano che è alto un metro e sessantadue centimetri, ha i capelli biondi e
lisci, gli occhi castani, la dentatura sana e che sa leggere e scrivere. Non è molto robusto, e
quindi lo registrano come soldato di 3ª categoria: "Magari la scampo ..." pensa "... anche
perché devono pur tener conto che la naja l'han già fatta i miei fratelli anche per me!"
Nel 1915 scoppia la guerra e a Domenico la cartolina infatti non arriva. L'illusione di non fare il
militare dura però solo pochi mesi e il 24 febbraio del 1916 anche per lui arriva il momento di
partire "perché c'é la mobilitazione" gli dicono! E così, il 5 marzo Domenico si presenta a Belluno
al magazzino del 7° Reggimento dove viene visitato di nuovo, dichiarato abile e vestito da alpino.
Lo mandano subito al fronte come assalitore, ma quando arriva in Val Costeana, sopra Cortina, gli
danno un mulo e lo fanno andare avanti e indietro da Vervei sulla strada per il Falzarego e poi su,
fino ai piedi del Castelletto, quel roccione dal quale i tedeschi gli sparano ogni volta che il
sentiero si fa un po' più esposto. "Bisognava aspettare il momento giusto, e poi fare una corsa
tirandosi dietro il mulo per la cavezza ... e sperare ogni volta che quegli altri, lassù,
sbagliassero la mira" racconterà Domenico. "Dentro alla Tofana scavavano una galleria, lunga
e tutta in salita, per preparare la mina che, dicevano, li avrebbero fatti sloggiare quei maledetti
cecchini. Intanto bisognava portar su il materiale e pane e companatico per quelli che scavavano,
quasi tutti cadorini, e anche per quegli altri che facevano i turni di guardia; c'era un pezzo di
teleferica, ma il nostro lavoro occorreva sempre, ed erano contenti quando si arrivava, anche se
per scherzo ci chiamavano 'sconci'. Festa ci facevano, specialmente quando si portava su anche la
posta!". E Domenico, col suo mulo, continua a fare avanti e indietro, per tutta l'estate e poi
in autunno, e anche in quel dannato inverno tra il '15 ed il '16, quando di neve sulle Dolomiti ne
cade tanta, ma così tanta che in alcuni posti, per passare, si son dovute scavare vere e proprie
gallerie nella neve, così larghe da farci passare il mulo col basto. Dai primi di luglio i carichi
sono diversi dal solito: cassette di legno, centinaia di cassette piene di esplosivo che serve a
caricare la camera di scoppio della mina. La sera dell'11 luglio Domenico è già sceso a valle, ma
anche lui passa la notte ad aspettare. Non si può dormire in un momento simile, e come tanti altri
è salito da Vervei fino alla curva dove si vede bene il profilo del Castelletto. Sono le 3,40
quando la montagna esplode; si vede perfino la fiammata e subito dopo si sente il rumore, più forte
del tuono, che rimbomba per tutta la valle e rimbalza sulle rocce, da una Tofana all'altra, fino
all'Averau dove han detto che ci siano anche Cadorna e il Re a godersi lo "spettacolo"!
A Domenico quel momento rimarrà impresso per tutta la vita e continuerà a raccontarlo in famiglia e
al bar del paese a tutti quelli che lassù non c'erano.
Dall'O' rimane sulle Dolomiti fino alla tarda primavera del 1917, quando arriva l'ordine di partire
per l'Isonzo. Verso la fine di giugno, passando per Pocol, gli alpini del Gruppo di Tarditi si
fermano a salutare i propri morti, e poi giù per Cortina, San Vito e Tai, fino a Longarone. Qui
Domenico ottiene una brevissima licenza e passa per Puos a salutare i suoi. Torna poi a Longarone
e, assieme agli altri, prende il treno che lo porta verso la Carnia.
I figli di Domenico non hanno precisi ricordi su quanto raccontava Domenico del periodo che,
certamente, si riferisce all'XI battaglia dell'Isonzo. Gioacchino ricorda solo qualche nome:
Bainsizza e Monte Rosso, ma ciò è sufficiente per capire che anche Domenico è stato impegnato con
le salmerie nelle azioni che si sono svolte fra il 18 agosto e il 12 settembre dalle parti di
Doblar e poi su, passato l'Isonzo, verso Siroka Nijva, Mesniak e Testen.
Quel che avvenne sul Monte Rosso, l'ultima settimana di ottobre del 1917, è altrettanto noto: il
battaglione "Belluno" è stato mandato a rilevare le posizioni che, in precedenza, erano tenute
dalla Brigata Etna annientata da una mina, questa volta preparata dagli Austriaci. Sono i giorni
della "rotta di Caporetto" e Domenico viene catturato. Lo inviano verso i campi di concentramento
della Westfalia, ma il treno che trasporta i prigionieri si scontra accidentalmente con un altro
convoglio ed i vagoni, carichi di uomini, si attorcigliano, si ribaltano, si accavallano gli uni
sugli altri. "Me l'ero perfino sognato, una notte, che sarebbe successo qualcosa di simile",
raccontava Domenico ai figli, "c'era mio papà nel sogno, che mi diceva di stare attento che
sarebbe successo qualcosa di brutto! In quel disastro il nostro vagone si è impennato ed é saltato
sopra agli altri. In quattro ci siamo salvati: io, Pietro De Vettori da Montanes, Bortolo
Bortoluzzi, anche lui da Puos, e un altro Dall'O che di soprannome faceva Moro."
Rinchiuso nel campo di concentramento di Minden, sul fiume Weser, per Domenico la guerra è finita
ma ne comincia un'altra, ben dura, contro le ristrettezze e la fame. Gli assegnano il numero
66350 e quel numero, ogni lunedì, viene chiamato per la visita medica. Per nove mesi Domenico fa
segnare all'ago della bilancia il peso di 27 chili! "Come un bambino è arrivato a pesare mio
padre ..." dice Antonia che lo ha scritto, quando ancora insegnava, anche in un breve racconto
preparato per la scuola, "... e Pietro De Vettori, che conosceva in po' il tedesco, nel campo di
prigionia faceva da interprete. Poi, alla fine della guerra, lui e mio padre si sono fatti compari
e hanno tenuto a battesimo l'uno i figli dell'altro! Sempre grandi amici sono rimasti!"
Un giornale dell'epoca riporta una lettera del soldato Di Pietro Francesco dell'8° Reggimento
Alpini scritta dopo il suo rientro dal campo di prigionia: "... raccontare la bella vita
trascorsa nel campo è cosa indescrivibile, ma basta sapere che si mangia un ottavo di pane al
giorno, aringhe, acqua calda al mattino e sera, sporcizia e bastonate in quantità ...".
Liberato alla fine della guerra, il 7 gennaio del 1919 Domenico Dall'O arriva a Pistoia al centro
di mobilitazione per i militari rientrati dalla prigionia e quindici giorni più tardi ritorna a
Belluno - alla 4ª Compagnia del 7° alpini specifica il suo foglio matricolare.
Per le sue alquanto precarie condizioni di salute, il 26 gennaio viene ricoverato all'ospedale di
Vittorio Veneto dove resta fino al 22 marzo.
Con Luigia Dal Pont, una compaesana di Bastia, mette su famiglia e nel 1927 gli vengono assegnate
la medaglia della Campagna 1916-'17 e quella istituita a ricordo della guerra 1915-'18. "Se
fossero almeno di rame buono ...", scherzava Domenico, "...servirebbero ad aggiustare il
buco che c'é nella caldiera della lisciva!"
A settembre del '43 ritorna in ospedale, a Belluno, per subire un'operazione che, fortunatamente,
ha buon esito e così Domenico può tornare a coltivare i suoi campi a Bastia di Puos d'Alpago, non
lontano dal Lago di Santa Croce.
Domenico Dall'O muore a Belluno il 6 novembre del 1967 poco prima di avere la soddisfazione di
essere nominato cavaliere di Vittorio Veneto.
Riposa ora accanto a sua moglie nel cimitero della frazione Sitran di Puos d'Alpago.
(Le informazioni sono state fornite dai figli di Domenico, e in modo speciale da Celeste e Antonia
che, molto affabilmente e anche con un po' di emozione, hanno accettato di rispolverare i loro
ricordi.)
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Nato il 16 maggio 1885 a Puos D'Alpago (BL)
Morto il 6 novembre 1967 a Belluno
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
Domenico Dall'O, nato a Puos d'Alpago, in provincia di Belluno, il 16 maggio del 1885, è l'ultimo
dei tredici figli di Gioacchino e Antonia Baldovin. La numerosa famiglia risiede nella frazione di
Sitran dove, fin da ragazzo, Domenico contribuisce al lavoro nei campi frequentando intanto le
scuole elementari a Puos. E' ancora giovanotto quando, come tanti altri suoi compaesani, è
costretto ad emigrare: "Una bocca in meno da sfamare e qualche soldo in più che arrivava a casa
per aiutare la famiglia...", commentano oggi i suoi figli, tutti e tre viventi: Celeste il
maggiore, Gioacchino reduce di Russia ed Antonia che ha trascorso gran parte della sua vita a fare
la maestra elementare.
Dunque, Domenico trova lavoro dalle parti di Berna dove viene assunto come manovale nei cantieri di
costruzione delle ferrovie svizzere. Rientra in Italia per passare la visita di leva e nel suo
foglio matricolare annotano che è alto un metro e sessantadue centimetri, ha i capelli biondi e
lisci, gli occhi castani, la dentatura sana e che sa leggere e scrivere. Non è molto robusto, e
quindi lo registrano come soldato di 3ª categoria: "Magari la scampo ..." pensa "... anche
perché devono pur tener conto che la naja l'han già fatta i miei fratelli anche per me!"
Nel 1915 scoppia la guerra e a Domenico la cartolina infatti non arriva. L'illusione di non fare il
militare dura però solo pochi mesi e il 24 febbraio del 1916 anche per lui arriva il momento di
partire "perché c'é la mobilitazione" gli dicono! E così, il 5 marzo Domenico si presenta a Belluno
al magazzino del 7° Reggimento dove viene visitato di nuovo, dichiarato abile e vestito da alpino.
Lo mandano subito al fronte come assalitore, ma quando arriva in Val Costeana, sopra Cortina, gli
danno un mulo e lo fanno andare avanti e indietro da Vervei sulla strada per il Falzarego e poi su,
fino ai piedi del Castelletto, quel roccione dal quale i tedeschi gli sparano ogni volta che il
sentiero si fa un po' più esposto. "Bisognava aspettare il momento giusto, e poi fare una corsa
tirandosi dietro il mulo per la cavezza ... e sperare ogni volta che quegli altri, lassù,
sbagliassero la mira" racconterà Domenico. "Dentro alla Tofana scavavano una galleria, lunga
e tutta in salita, per preparare la mina che, dicevano, li avrebbero fatti sloggiare quei maledetti
cecchini. Intanto bisognava portar su il materiale e pane e companatico per quelli che scavavano,
quasi tutti cadorini, e anche per quegli altri che facevano i turni di guardia; c'era un pezzo di
teleferica, ma il nostro lavoro occorreva sempre, ed erano contenti quando si arrivava, anche se
per scherzo ci chiamavano 'sconci'. Festa ci facevano, specialmente quando si portava su anche la
posta!". E Domenico, col suo mulo, continua a fare avanti e indietro, per tutta l'estate e poi
in autunno, e anche in quel dannato inverno tra il '15 ed il '16, quando di neve sulle Dolomiti ne
cade tanta, ma così tanta che in alcuni posti, per passare, si son dovute scavare vere e proprie
gallerie nella neve, così larghe da farci passare il mulo col basto. Dai primi di luglio i carichi
sono diversi dal solito: cassette di legno, centinaia di cassette piene di esplosivo che serve a
caricare la camera di scoppio della mina. La sera dell'11 luglio Domenico è già sceso a valle, ma
anche lui passa la notte ad aspettare. Non si può dormire in un momento simile, e come tanti altri
è salito da Vervei fino alla curva dove si vede bene il profilo del Castelletto. Sono le 3,40
quando la montagna esplode; si vede perfino la fiammata e subito dopo si sente il rumore, più forte
del tuono, che rimbomba per tutta la valle e rimbalza sulle rocce, da una Tofana all'altra, fino
all'Averau dove han detto che ci siano anche Cadorna e il Re a godersi lo "spettacolo"!
A Domenico quel momento rimarrà impresso per tutta la vita e continuerà a raccontarlo in famiglia e
al bar del paese a tutti quelli che lassù non c'erano.
Dall'O' rimane sulle Dolomiti fino alla tarda primavera del 1917, quando arriva l'ordine di partire
per l'Isonzo. Verso la fine di giugno, passando per Pocol, gli alpini del Gruppo di Tarditi si
fermano a salutare i propri morti, e poi giù per Cortina, San Vito e Tai, fino a Longarone. Qui
Domenico ottiene una brevissima licenza e passa per Puos a salutare i suoi. Torna poi a Longarone
e, assieme agli altri, prende il treno che lo porta verso la Carnia.
I figli di Domenico non hanno precisi ricordi su quanto raccontava Domenico del periodo che,
certamente, si riferisce all'XI battaglia dell'Isonzo. Gioacchino ricorda solo qualche nome:
Bainsizza e Monte Rosso, ma ciò è sufficiente per capire che anche Domenico è stato impegnato con
le salmerie nelle azioni che si sono svolte fra il 18 agosto e il 12 settembre dalle parti di
Doblar e poi su, passato l'Isonzo, verso Siroka Nijva, Mesniak e Testen.
Quel che avvenne sul Monte Rosso, l'ultima settimana di ottobre del 1917, è altrettanto noto: il
battaglione "Belluno" è stato mandato a rilevare le posizioni che, in precedenza, erano tenute
dalla Brigata Etna annientata da una mina, questa volta preparata dagli Austriaci. Sono i giorni
della "rotta di Caporetto" e Domenico viene catturato. Lo inviano verso i campi di concentramento
della Westfalia, ma il treno che trasporta i prigionieri si scontra accidentalmente con un altro
convoglio ed i vagoni, carichi di uomini, si attorcigliano, si ribaltano, si accavallano gli uni
sugli altri. "Me l'ero perfino sognato, una notte, che sarebbe successo qualcosa di simile",
raccontava Domenico ai figli, "c'era mio papà nel sogno, che mi diceva di stare attento che
sarebbe successo qualcosa di brutto! In quel disastro il nostro vagone si è impennato ed é saltato
sopra agli altri. In quattro ci siamo salvati: io, Pietro De Vettori da Montanes, Bortolo
Bortoluzzi, anche lui da Puos, e un altro Dall'O che di soprannome faceva Moro."
Rinchiuso nel campo di concentramento di Minden, sul fiume Weser, per Domenico la guerra è finita
ma ne comincia un'altra, ben dura, contro le ristrettezze e la fame. Gli assegnano il numero
66350 e quel numero, ogni lunedì, viene chiamato per la visita medica. Per nove mesi Domenico fa
segnare all'ago della bilancia il peso di 27 chili! "Come un bambino è arrivato a pesare mio
padre ..." dice Antonia che lo ha scritto, quando ancora insegnava, anche in un breve racconto
preparato per la scuola, "... e Pietro De Vettori, che conosceva in po' il tedesco, nel campo di
prigionia faceva da interprete. Poi, alla fine della guerra, lui e mio padre si sono fatti compari
e hanno tenuto a battesimo l'uno i figli dell'altro! Sempre grandi amici sono rimasti!"
Un giornale dell'epoca riporta una lettera del soldato Di Pietro Francesco dell'8° Reggimento
Alpini scritta dopo il suo rientro dal campo di prigionia: "... raccontare la bella vita
trascorsa nel campo è cosa indescrivibile, ma basta sapere che si mangia un ottavo di pane al
giorno, aringhe, acqua calda al mattino e sera, sporcizia e bastonate in quantità ...".
Liberato alla fine della guerra, il 7 gennaio del 1919 Domenico Dall'O arriva a Pistoia al centro
di mobilitazione per i militari rientrati dalla prigionia e quindici giorni più tardi ritorna a
Belluno - alla 4ª Compagnia del 7° alpini specifica il suo foglio matricolare.
Per le sue alquanto precarie condizioni di salute, il 26 gennaio viene ricoverato all'ospedale di
Vittorio Veneto dove resta fino al 22 marzo.
Con Luigia Dal Pont, una compaesana di Bastia, mette su famiglia e nel 1927 gli vengono assegnate
la medaglia della Campagna 1916-'17 e quella istituita a ricordo della guerra 1915-'18. "Se
fossero almeno di rame buono ...", scherzava Domenico, "...servirebbero ad aggiustare il
buco che c'é nella caldiera della lisciva!"
A settembre del '43 ritorna in ospedale, a Belluno, per subire un'operazione che, fortunatamente,
ha buon esito e così Domenico può tornare a coltivare i suoi campi a Bastia di Puos d'Alpago, non
lontano dal Lago di Santa Croce.
Domenico Dall'O muore a Belluno il 6 novembre del 1967 poco prima di avere la soddisfazione di
essere nominato cavaliere di Vittorio Veneto.
Riposa ora accanto a sua moglie nel cimitero della frazione Sitran di Puos d'Alpago.
(Le informazioni sono state fornite dai figli di Domenico, e in modo speciale da Celeste e Antonia
che, molto affabilmente e anche con un po' di emozione, hanno accettato di rispolverare i loro
ricordi.)