Nazione Gariboldi Italo

Grado Tenente Colonnello

Stato Maggiore 4ª Armata

Ritratto

Nato il 20 aprile 1879 a Lodi

Morto di vecchiaia il 9 febbraio 1970 a Roma

Decorazioni

Decorazione Medaglia d'Argento

Prima addetto, poi Capo dell'Ufficio Operazioni di un'Armata, distintissimo per intelligenza e per salde virtù militari, per meglio assolvere ai suoi compiti, sapeva rendersi altamente benemerito con frequenti ricognizioni nelle prime linee. Incurante di ogni disagio, sprezzante di ogni pericolo, attraversando in varie circostanze zone intensamente battute e sostando in trincea avanzata durante violenti bombardamenti, riusciva a tenere il comando di Armata informato della situazione anche nei momenti più critici della lotta. Uscì varie volte dalle linee avanzate, in ore e giorni diversi, di sua iniziativa, avvicinandosi arditamente alle linee nemiche con rischio personale, e ne ritornò con preziose informazioni.
Cadore, ottobre 1917

Note biografiche (Treccani, Wikipedia)

Nacque a Lodi il 20 aprile 1879 da Ercole e da Maria Crocciolani. Compiuti gli studi militari a Milano e Roma, fu nominato sottotenente di fanteria nell'ottobre 1898. Capitano e diplomato alla scuola di guerra, partecipò alla guerra italo-turca del 1911-12. Servì poi, in esperimento di stato maggiore, presso il VI Corpo d'Armata e, dal maggio 1915, presso il comando della 4ª Armata in zona di guerra; dal novembre 1915 all'ottobre 1917, maggiore e poi tenente colonnello, fece parte del corpo di stato maggiore. Colonnello dal gennaio 1918, dopo la ritirata dal Cadore e l'azione sul Grappa come capo dell'ufficio operazioni della 4ª Armata, ottenne una medaglia d'argento ed il cavalierato dell'Ordine militare di Savoia. Intendente di un Corpo d'Armata destinato alla sfumata spedizione nel Caucaso (1918), fu successivamente al comando del corpo d'Armata di Bologna e, nel 1919, capo di stato maggiore della 77ª divisione a Volosca (Fiume). Dal 1920 al 1925 resse la delegazione italiana per la definizione dei confini con la Jugoslavia e, nel 1926, il 26° Reggimento Fanteria. Dopo aver insegnato alla scuola di guerra, divenuto generale nel 1931, comandò in successione la V Brigata di fanteria, la R. Accademia di fanteria e cavalleria e la Scuola d'applicazione di fanteria; dal 1935 fu membro del Consiglio dell'esercito. Nel 1936 comandò, in Africa orientale, la Divisione di Fanteria Sabauda I che marciò su Addis Abeba dove giunse, senza contrasto, il 5 maggio. Governatore della città e capo di stato maggiore del governo dell'Africa orientale italiana, si impegnò nella repressione della resistenza abissina (nel corso della quale venne fatto uso di iprite e si ebbero esecuzioni sommarie); successivamente fu leggermente ferito in occasione dell'attentato a Rodolfo Graziani (19 febbraio 1937). Rimpatriato nel febbraio 1938 e promosso generale di Corpo d'Armata per meriti eccezionali, ebbe una seconda medaglia d'argento, una croce al merito, la commenda dell'Ordine militare di Savoia nonché il titolo di grande ufficiale dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia. Fu al comando del Corpo d'Armata di Trieste e poi (dall'11 giugno 1940 all'11 febbraio 1941), in Tripolitania, della 5ª Armata che costituiva, insieme con la 10ª, le forze terrestri in Libia. Il 2 luglio 1940, quando il maresciallo Graziani sostituì Italo Balbo (morto il 28 giugno), Gariboldi divenne vicecomandante delle forze italiane in Libia. Partecipò alle operazioni che, dopo l'effimera avanzata su Sidi el Barrani, si conclusero con la distruzione della 10ª Armata (9 dicembre 1940 - 7 febbraio 1941) e la perdita della Cirenaica nonché dell'oasi di Cufra occupata, dall'1 marzo 1941, da forze francesi gaulliste. L'11 febbraio 1941 succedette al Graziani nel comando superiore ed, in seguito, nel governatorato generale della Libia (24 marzo). La Cirenaica (ad eccezione di Tobruk) fu riconquistata, tra la fine di marzo e il 12 aprile, dalla 5ª divisione leggera tedesca e da reparti italiani al comando del generale Rommel, sbarcato a Tripoli il 12 febbraio; tali operazioni, iniziate contro il parere di Gariboldi, resero molto tesi i suoi rapporti col generale tedesco. Su proposta del capo di stato maggiore dell'esercito, generale Roatta, Gariboldi fu allora rimpiazzato dai generali Bastico e Gambara e venne, quindi, rimpatriato il 19 luglio 1941 ed aggregato senza precise mansioni al comando supremo. Nella primavera 1942 gli fu affidato il comando dell'8ª Armata (ARMIR) chiamata a quadruplicare il corpo italiano (CSIR) già impegnato, dal 1941, sul fronte russo. In quest'occasione all'8ª Armata non furono lesinate risorse benché fossero in preparazione un'offensiva in Libia e l'assalto a Malta: quattro nuove divisioni di fanteria e tre alpine, oltre a formazioni di camicie nere e reparti tecnici e logistici, portarono l'Armata a una forza di 229.000 uomini, compresi i 60.000 del CSIR. Gli automezzi salirono nell'insieme a 16.700, più 1130 trattori d'artiglieria (uno ogni tredici uomini) nonché 4470 motocicli; l'artiglieria comprendeva quasi l'intera disponibilità nazionale di pezzi moderni. Pur mancando i mezzi corazzati (riservati all'Africa), si trattava di dotazioni in genere superiori a quelle delle divisioni di fanteria tedesca; abbondante era anche il resto dell'equipaggiamento, compreso quello invernale. Gariboldi, ricevuto da Hitler in maggio, si trasferì a luglio sul fronte orientale. I nuovi corpi raggiunsero sul Don le divisioni avanzanti del generale Messe e Gariboldi ottenne che le tre divisioni del corpo alpino, inizialmente destinate ad agire sul Caucaso, non fossero staccate dal grosso dell'Armata; questa assunse poi nuova fisionomia per l'inserimento di reparti tedeschi e per cambiamenti intervenuti all'interno del CSIR (ora XXXV Corpo d'Armata), dove la divisione "Torino" fu sostituita, rompendo così vecchi legami di tradizione e di cameratismo. Dopo favorevoli combattimenti a Serafimovic ed una brutta flessione della divisione "Sforzesca" (luglio-agosto), gli Italiani furono distesi a cordone per 270 km sul Don, formando, insieme con un'Armata ungherese ed una romena, la copertura statica della leva tedesca impegnata nelle divergenti direttrici di Stalingrado e del Caucaso. Alla risibile densità che vanificava quanto di buono vi era nell'armamento italiano, avrebbero dovuto rimediare ipotetiche riserve corazzate tedesche. Seguirono settimane di calma in cui migliaia di automezzi italiani furono sfruttati per portare i rinforzi tedeschi a Stalingrado mentre nulla veniva predisposto per un ripiegamento, pur prevedibile data la stasi tedesca e l'approssimarsi dell'inverno. L'1 novembre 1942 l'8ª Armata perse la collaborazione del generale Messe rientrato in Italia dopo vivaci contrasti con il Gariboldi. L'11 dicembre i Sovietici investirono con oltre 700 carri armati i tre corpi italiani a meridione di quello alpino (II, XXXV e XXIX) già abbandonati dalle riserve tedesche accorse più a sud per puntellare la 3ª Armata romena che stava crollando. Dopo una settimana di combattimenti - durante i quali il comando tedesco negò l'autorizzazione a ripiegare timidamente prospettata da Gariboldi - due terzi dell'Armata furono travolti con perdite enormi. I resti, avviati dapprima verso il Donez per ricostituire una linea difensiva, furono poi sgombrati nelle retrovie. Più a nord si sosteneva il corpo formato dalle tre divisioni alpine, col quale le comunicazioni si mantennero libere fino al 13 gennaio 1943, quando il cedimento anche della 2ª Armata ungherese portò le colonne sovietiche alle spalle degli alpini. Solo allora il comando tedesco diede l'ordine di ritirata. Non risulta che nel frattempo il comando italiano avesse agito né per sollecitare tale ordine né, soprattutto, per prepararne l'attuazione almeno predisponendo itinerari per i 2011 automezzi (di cui 1432 autocarri "di manovra") ancora posseduti al 31 dicembre 1942 dall'intendenza, e pur essendosi ricevuti in quel mese 3201 mc di benzina. Dato e non concesso che gli autocarri non potessero raggiungere gli alpini in ritirata prima del formarsi della sacca, si sarebbe potuto almeno tentare di alleviare l'ulteriore ripiegamento proseguito a piedi per centinaia di chilometri in condizioni tragiche (va peraltro ricordato che nel corpo alpino militava, senza privilegi, anche un figlio di Gariboldi, Mario ufficiale che si guadagnò una Medaglia d'Argento). Del resto la perdita di due divisioni alpine ("Julia" e "Cuneense") avvenne perché - dopo la distruzione delle stazioni radio - nessun aereo segnalò loro la giusta direzione di marcia, come invece fecero le "cicogne" tedesche per la colonna che comprendeva la "Tridentina". Eppure all'8ª Armata doveva essere rimasto qualcuno degli aerei che contava in estate (un centinaio circa, compresa una squadriglia di moderni MC 202). I morti in Russia furono almeno 74.800; i superstiti, stremati e con molti feriti, ammalati e congelati, raggiunsero la zona di Gomel e di lì, nel marzo 1943, rientrarono in Italia. Con loro rientrò anche Gariboldi che, intanto, era stato festeggiato all'ambasciata d'Italia a Berlino: l'8 giugno 1943 Hitler gli concesse la Ritterkreuz che si aggiunse a ulteriori onorificenze italiane. Solo nel 1946, in una sua relazione, egli protestò contro "la cattiveria, l'ingiustizia" e la "falsità" dei Tedeschi preoccupati di "salvare se stessi". Al momento dell'armistizio, nel 1943, Gariboldi era a Padova, sempre al comando dell'8ª Armata in fase di ricostituzione. Il 15 settembre si arrese ai Tedeschi ma rifiutò di collaborare ulteriormente con essi; per questo e per il fatto che fra le sue truppe (sparse dal Brennero alla Venezia Giulia) si erano verificati episodi di resistenza spontanea, fu internato in Germania e quindi consegnato al governo della Repubblica sociale italiana, che lo processò e condannò a dieci anni di reclusione. Ma riuscì a evadere prima della Liberazione. Visse indisturbato il resto della sua vita a Roma dove morì, all'età di 91 anni, il 9 febbraio 1970.