Nazione Oddini Sardi Vittorio

Grado Sottotenente

Mostrina  50° Brigata Parma

Ritratto

Nato il 22 marzo 1895 a Ovada (AL)

Morto il 29 agosto 1916 presso l'OdC 040 di Cortina d'Ampezzo

Decorazioni

Decorazione Medaglia di Bronzo

Sotto intenso fuoco, riusciva a condurre il proprio plotone fin sotto le posizioni nemiche. Mentre con calma e coraggio riordinava il proprio reparto per lanciarlo all'assalto, veniva mortalmente colpito da pallottola esplosiva.
Monte Forame, 29 agosto 1916

Note biografiche (Archivio Franco Licini)

Prima del conflitto

Vittorio nasce a Ovada, allora in provincia di Genova[1], il 22 marzo 1895. Suo padre è l'avvocato Silvio Oddini Sardi, sua madre Bice Giangrandi. Dopo aver frequentato nella sua città le Regie Scuole, si reca a Genova dove si iscrive agli studi classici presso il liceo Andrea D'Oria. Licenziato nel 1914, passa quindi alla facoltà di Legge dove continua a dimostrarsi diligente e capace negli studi. Nel maggio del 1915 entra alla scuola militare di Modena. «A quella scuola - scriverà sua madre - ebbe note caratteristiche ottime: lasciò il campo della Porretta[2] col saluto augurale del Comandante la scuola, rivolto a lui e al compagno Camillo Vianson[3]: 'A qualsiasi compito voi sarete chiamati, sono certo onorerete la Patria!'».

La Grande Guerra e le lettere a casa

Il 20 settembre Vittorio riceve la nomina a sottotenente e per sua scelta viene incorporato nel 49° fanteria della Brigata Parma, destinato alla fronte in Val Cordevole. Alla metà di ottobre, nella stessa Brigata, passa al 50° reggimento che, a fianco degli alpini, è impegnato nelle sanguinose azioni sul Col di Lana. Il 9 novembre scrive a casa: «La mia vita zingaresca continua. Dopo circa venti ore metto il naso fuori di una buca, dove sono rimasto immobile dalle 14 di ieri e esco a 'riveder lo sole'. In posizione sicura come se fossi stato tra voi ho goduto lo spettacolo di un continuo bombardamento a pochi metri sopra la nostra testa. Non ve lo descrivo minutamente - unico ricordo è ora un poco di rintronamento di testa e le gambe legate dalla lunga posizione incomoda. Con tutti gli ufficiali del battaglione, sbucati loro pure ad uno ad uno con circospezione dalle loro tane, attendiamo sotto la protezione di un masso erratico il sacco della mensa».
Ad oltre 2000 metri di quota, sotto continui e furiosi bombardamenti dorme, quando può, dentro ad una buca: «... seduto su di una pietra, coi piedi sulla neve ... Come vedi la posizione non è delle più allegre e ci sarebbe da perdere la testa, se non si avessero fondate speranze di essere agli sgoccioli di questa vita travagliata e non ci sorgesse la convinzione che alle dieci notti bianche ultime non potranno più assolutamente seguirne altrettante (15 novembre '15)». Tanto è vero che, di lì a poco sette ufficiali del battaglione si ammalano ed in linea rimangono solo lui ed il suo capitano. Dalle pendici del Col di Lana si possono vedere: «... le tristi rovine di Livinallongo, che si scorge in fondo valle. Che desolazione! E che devastazione».
«Da più di quindici giorni - confessa in una lettera - non abbiamo posa e giriamo in ogni senso questo vero labirinto tormentato, lacerato, schiantato, ma pur sempre potente e fremente, dove i nostri nemici, come aquile nel più inaccessibile dei nidi, hanno impegnato una vera eroica resistenza. Quando la guerra sarà finita, potrete sapere della regione del Lana molti e molti episodi che avranno del leggendario». E con saggezza di uomo maturo, scrive a sua zia: «Mi chiedi un poco di filosofia. Veramente è l'unica cosa che sia permessa nelle lettere dal fronte, considerato che non si possono dare notizie di guerra: forse le disquisizioni filosofiche sono permesse perché non dicono nulla. Mi dici che vorresti essere con noi a combattere ed a soffrire? Anche a nome dei miei colleghi qui presenti e consenzienti, certo di interpretare i sentimenti di mille e mille che non conosco e che con me combattono, ammirandoti per l'abnegazione tua e pel tuo benvolere, ti prego di lasciare l'idea e di desistere dall'altruistico proposito. Che cosa sarebbe di noi, che stiamo conducendo una vita - lasciamelo dire - così contraria ad ogni sentimento di umanità e di carità, da null'altro confortata che dalla coscienza di compiere un dovere con sacrificio, se non pensassimo che v'é ancora chi nelle nostre case ci aspetta, serbandoci il benessere e la tranquillità, se fortunati potremo tornare a goderla; se non pensassimo che c'é chi si mantiene fuori di questo ambiente di tristezza e, non serbandone traccia in futuro, potrà farlo dimenticare a noi? Che cosa succederebbe se tutti voi lasciaste le vostre case? Potreste forse serbare la vostra serenità consolatrice? Non siete anche voi esseri umani che risentono delle influenze esterne tanto e forse più degli uomini? Ed allora ...? Tutte vi cruciate dal timore di fare troppo poco. Tenetevi paghe di ciò che fate, fatelo pure con più ardore se volete, con più convinzione, con più amore. Ma per carità, non esulate dal vostro campo!».
E si scusa se è un po' sconclusionato, poiché scrive in un periodo di lotta così intensa da scuotere le fibre più forti: «... vincendo anche quegli scoraggiamenti che acuiscono i dolori fisici. Per dieci giorni ho comandato la mia compagnia, rimasto unico ufficiale, mentre il capitano comandava il battaglione. E mi sono accorto che il senso della responsabilità ci fa passare sopra tutte le incertezze, ripagandoci ad opera compiuta con piena ed intima soddisfazione». Il 22 novembre scende finalmente a riposo nei pressi del Castello di Andraz, dove la neve non è ancora caduta e dove si stanno approntando precari ricoveri per trascorrere il prossimo inverno: «Siamo in un bel bosco di pini e abeti, ed oggi pare di essere in primavera ...» ha il tempo di osservare, ma da lì a poco ritorna alla durezza del Col di Lana: «L'inchiostro gela, le dita gelano, il cervello gela ed allora non v'é altro sollievo che affondarsi nel sacco di pelo, quando non si deve uscire a fare l'uomo dei boschi, coi capelli lunghi, un cappotto col pelo di coniglio, le ghette valdostane alla filibustiera, il casco di ferro in testa ed un alto bastone ad uncino in pugno da sembrare qualche iddio teutone o Sigfrido nel Crepuscolo». Ma proprio allora gli tocca la più terribile disgrazia: suo padre il 9 dicembre muore. Lo stesso giorno Vittorio è sceso ad Agordo e senza nulla sospettare scrive a casa: «... per ringraziare dello scampato pericolo in quaranta lunghi giorni di vita di guerra, il reggimento si è riunito a messa in un bosco di abeti. Benché io non sia mai stato molto tenero nell'argomento, vi assicuro che la funzione fu di quelle che non si dimenticano facilmente: molto triste e molto serena ad un tempo». Tre giorni più tardi il cappellano gli comunica con riguardo la dolorosa notizia e Vittorio scrive subito alla mamma ed alla sorella: «Vi prego di non piangere, come io non ho pianto ... mi sono sentito forte più di quanto credessi ... Povera Sandra mia, che hai in due mesi tristi colmato il vuoto da me lasciato con giudizio ed amore, il tuo fratellino vuole che tu ricordi sempre che il tuo posto è vicino a nostra madre per consolarla e non per farla piangere di più ... La guerra ha voluto temprare e costruire un uomo, la fortuna avversa vuole provarlo».
Maturato dal dolore, alla licenza invernale torna a riabbracciare sua madre, a farle coraggio, a prometterle che farà lui da padre alla sorella. Quindi riparte, e raggiunge il suo reggimento sulle Dolomiti, alle Tofane[4]. Tempo dopo, scrivendo a casa, per non allarmare i famigliari, scherza su una grave storta al piede che lo obbliga all'ospedale. Scherza, raccontando di aver passato una notte insonne, dopo una giornata faticosissima e piena di emozioni, per il timore di addormentarsi e non poter svegliare per tempo i soldati alle tre di mattina, affinché il povero cappellano, venuto lassù apposta con quattro ore di marcia a dir messa prima di un attacco, non resti deluso. Nei momenti di relativa tranquillità legge i libri che si è portato da casa: Dante, D'Annunzio e Carducci del quale recita ogni tanto ai suoi fanti "Il Comune rustico". Quando combatte in Val Travenanzes, nella primavera del 1916, con un po' di umorismo scrive agli amici di soffrire i tormenti della stagione e le insidie del nemico e di essere stato persino sepolto da una valanga[5] e liberato dopo una notte di lavoro. Caduto in una "bocca di lupo"[6] ne riporta dolorose ferite ma con ironia dice di essere: « ...caduto in una "bocca di pecora"... in me non c'é la stoffa dell'eroe!» Ma il suo comandante non è della stessa opinione; avrà infatti modo di scrivere di lui: «Nelle mie frequenti visite alle trincee di prima linea l'avevo sempre notato per assiduità e instancabilità nei lavori di rafforzamento in zona pericolosa: la sua figura distinta, il suo tratto signorile, la sua parola cortese mettevano in luce le fini e belle qualità del suo cuore, della sua mente. Animo generoso, affrontava sereno il pericolo sempre ed ovunque, sia che lungamente gli incombesse nel diurno servizio di trincea, sia che gli si manifestasse rapido, splendente di gloria nel turbinoso impeto dell'assalto».

La morte

Dopo undici mesi di guerra, alla vigilia di un periodo di meritato riposo, il sottotenente Oddini è chiamato nuovamente all'azione. La brigata Parma, lasciate le Tofane, era già stata impiegata contro le forti posizioni della Croda dell'Ancona e di Val Rufreddo ed un mese prima novecento dei suoi fanti non avevano fatto ritorno. Affiancato ad altri plotoni, anche quello del sottotenente Oddini va all'assalto delle posizioni austriache lungo lo scosceso costone del Forame. Vittorio si porta alla testa dei suoi e li incita ad avanzare. Le trincee austriache godono del vantaggio di dominare dall'alto gli attaccanti. I fanti si fermano al riparo di alcune rocce per riordinarsi prima dell'ultimo balzo in avanti. Vittorio si sporge per cogliere l'attimo giusto per scattare ma una pallottola lo ferisce all'aorta. Il sangue esce copioso ed i barellieri, a rischio della loro vita, riescono a caricarlo riportandolo a valle. Poche ore più tardi il sottotenente Vittorio Oddini Sardi muore all'ospedale da campo 040 a Cortina D'Ampezzo. «Per le molteplici prove di valore - scrive il suo comandante - egli è da me proposto per la medaglia di bronzo al valor militare». A Ovada, la sua città natale, gli sarà dedicata la via che costeggia il torrente Stura.

NOTE

[1] Oggi la città di Ovada è in Provincia di Alessandria.
[2] Si tratta di Porretta Terme, sull'Appennino Bolognese, dove si svolgeva l'addestramento degli allievi della Scuola militare di Modena.
[3] Il Vianson si guadagnerà una MBVM sul Mrzli il 21 ottobre 1915.
[4] Nel febbraio del 1916, dopo aver passato l'invero a Nord di Auronzo di Cadore, il 50° fanteria si trasferisce nel Settore Boite-Cristallo, entrando in linea nel tratto Tofana Seconda-Boite.
[5] Da 23 febbraio in zona Tofane nevica intensamente e numerose slavine si staccano dai versanti. Il 26 a canalone Falzarego scende una valanga che travolge sei muli; il giorno 28 un'altra valanga si abbatte alla testata della Val Travenanzes ed investe le postazioni del 50° fanteria. Alcuni uomini vengono salvati, altri perdono la vita.
[6] Un tipo di trappola formato da una buca con all'interno pali appuntiti o altri sistemi di offesa.