Nazione Loschi Angelo

Grado Attendente di Sanità

Mostrina  7° Alpini, battaglione Val Piave

Ritratto

Nato il 5 maggio 1892 a Follina (TV)

Morto il 3 gennaio 1963 a Novara

Note biografiche (Archivio Franco Licini)

Prima della guerra

Angelo Loschi nasce il 5 maggio del 1892 a Follina, in provincia di Treviso, da Antonio Loschi e Giuseppina Lorenzoni. Come altri della sua famiglia, fin da ragazzo aspira alla professione di medico e non appena possibile si iscrive, presso l’Università patavina, alla facoltà di medicina e chirurgia.

La Grande Guerra

Quando scoppia la prima Guerra Mondiale, Angelo ha appena compiuto 23 anni e lascia gli studi per essere arruolato ed inquadrato come portaferiti nella 267ª Compagnia del Battaglione Alpini «Val Piave». Ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, dov’é organizzato un posto di primo soccorso, l’ufficiale medico Antonio Berti lo nota, oltre che per il comune interesse per la medicina, per le sue spiccate doti di altruismo e le discrete capacità di arrampicarsi tra le rocce. Lo ingaggia quindi come proprio aiutante.
Sulle Dolomiti Angelo ritrova anche alcuni compaesani, tra i quali un ragazzone poco più giovane di lui che viene da Valmareno, una frazione di Follina che dista poche centinaia di metri da casa sua. Si chiama Pietro De Luca, un alpino della 268ª Compagnia che si fa notare per l’insaziabile appetito e una naturale attitudine a menar le mani. Un po’ per scherzo, un po’ per davvero, il suo Capitano, Alberto Neri, dice che “ha le braccia come due cosce di uomo normale e le mani come ombrellini da signora”.
Alla fine di giugno i due paesani si salutano: Pietro, con una pattuglia di altri otto compagni, parte per il turno di presidio sul Paterno a quota 2.744. Angelo guarda la fila di uomini che si allontana e alza lo sguardo ad osservare la cima a cui sono diretti; gli alpini l’hanno da poco conquistata senza colpo ferire. Pochi giorni dopo, il 4 luglio, da Forcella Lavaredo il tenente Antonio Berti, attratto dal fragore di un bombardamento, punta il binocolo verso la cima del Paterno e scorge una pattuglia austriaca che si trova ormai a pochi passi dalle postazioni italiane. E’ lo stesso Berti che nel suo libro “Guerra in Cadore” descrive ciò che vede in quel momento:
Ora i sei salgono uno dietro l'altro, per il filo della cresta. Da Forc. Pian di Cengia gli alpini del magg. Buffa di Perrero scorgono le sei sagome che si stagliano nel rosso del cielo. È l'allarme. Mentre i sei escono in parete ovest, si svegliano i pezzi e le mitragliatrici di Lavaredo. Pronte rispondono tutte le mitragliatrici austriache. Sopra il frastuono rombano i cannoni del M. Rudo, un mortaio del Sasso di Sesto, un pezzo da 80 mm che sembra appostato nei pressi della Forcella di Toblin, un obice da 105 che dalla Torre dei Scarperi spara insistentemente contro la Forcella Pian di Cengia. E quelli sempre si arrampicano, a scatti, a sbalzi, si appiattano dentro ogni incavo, dietro ogni costola ... Una scheggia rimbalza sulla fronte del Sepp [Innerkofler]; gli si riga la faccia di sangue, gli si offuscano le lenti degli occhiali, e continua a salire. Una pietra colpisce Forcher in fronte, sanguina, e continua a salire. Hanno quasi raggiunta la cima. Come ad un segnale d'un tratto, al frastuono, alla raffica ininterrotta di pallottole e schegge, succede un assoluto silenzio. In tutta la valle, su tutte le forcelle, sulle cime, di qua e di là delle trincee, si stende uno stato spasmodico di attesa. Il Sepp è a dieci passi dalla cima. Si fa il segno della croce e con ampio arco di mano lancia la prima bomba oltre il muretto della vedetta della cima. Lancia la seconda e poi la terza. D'improvviso appare, dritta, sul muretto della cima, la figura di un soldato alpino, campeggiante nel tersissimo cielo, alte le mani armate di un masso, rigata la fronte di rosso da una scheggia della prima bomba. «Ah! No te vol andar via?». Prende giusto la mira, scaglia con le due mani il masso. Il Sepp alza le braccia al cielo, cade riverso, piomba, s'incastra nel camino Oppel, morto. L’alpino che ha scagliato il masso, col genio dei cadorini di Pier Fortunato Calvi, si chiama Piero De Luca. La cima del Paterno che appare acuminata dal Rifugio Tre Cime è in realtà vasta e forgiata a cupola. Era presidiata da 9 uomini del Battaglione «Val Piave» comandati dal capor. Da Rin, sei dei quali in riserva, tre appostati a guardare i possibili accessi nemici. E’ merito notevolissimo del capor. Da Rin la resistenza mirabile e il sangue freddo che hanno dimostrato quegli uomini nel mantenere le loro posizioni di guardia, pur così fortemente bombardate, e le disposizioni prontamente prese per una difesa invincibile. Caduto Innerkofler, riunitisi rapidi quei difensori, con i fucili puntati in basso e con i sassi a portata di mano, allo sbocco superiore del canalone austriaco, sarebbe stato pazzesco qualunque ulteriore tentativo nemico di guadagnare la cima.
Un nostro porta feriti, Angelo Loschi, studente in medicina, sa che il suo tenente medico, vecchio alpinista di quei luoghi (per strana intuizione avuta nell’assistere da Forc. Lavaredo a quel duello d’aquile) insistentemente afferma che quel morto è certo la più nota guida della V. di Sesto, Sepp Innerkofler: lo stesso che vent’anni prima ha aperto la via per quel crestone, la via di quell’epica scalata all’olocausto. Il giovane portaferiti si interessa vivamente al presentimento assillante, medita tra sé di raggiungere e di riconoscere la salma; vuol rendere onore all’eroismo. Una notte sale in cima al Paterno e si prova a calarsi nel camino Oppel. Gli si accompagna un alpino: Vecellio. Smuovono sassi, che cadono e rimbalzano fino in fondo al canalone sottostante al camino: il rumore, nel silenzio, rintrona lontano: gli austriaci sentono; una raffica di pallottole investe la cima; i due si arrestano, protetti da una costola. Le fucilate si diradano. Loschi legato e sostenuto da Vecellio, ridiscende; raggiunge la salma; la trova con le reni incastrate nel camino, con il tronco e la testa penzolanti nel vuoto. Si scioglie dalla corda, lega il morto alla cintola, raggiunge Vecellio e a quattro mani e a tutta forza issano. Il cadavere si innalza di pochi metri, poi col peso spezza la corda, ripiomba e si incastra di nuovo nel camino. Con una corda nuova ridiscendono, rilegano; Vecellio risale, e postatosi saldo tira quanto può la corda. La salma, disincagliata, lenta nuovamente ascende: Loschi da sotto la sostiene e sospinge puntando colla schiena. Fischiano pallottole ancora. Nel camino buio la musica accompagna la poesia della pietà guerriera. La salma fu tumulata in cima al Paterno. Fu scolpita una lapide con parole reverenti e fu issata sul tumulo la corda da montagna dell’eroe composta a croce. Il giorno successivo, una piccozza recuperata a Forcella Col di Mezzo, reca l’iniziale del nome e per intero il cognome Innerkofler.

Per il suo atto di pietà, compiuto a rischio della vita, Loschi riceve un encomio solenne. Nonostante i continui impegni come aiutante di sanità, Angelo usa ogni ritaglio di tempo per proseguire i suoi studi di medicina, sostenuto da Berti che non gli nega qualche buon consiglio. Finalmente, il 12 aprile del 1917, ottenuta una licenza speciale, Loschi si laurea presso l’Università di Padova ottenendo la specializzazione in ostetricia e ginecologia.

Il dopoguerra

Finita la guerra Angelo si trasferisce a Novara dove ha vinto un concorso presso la Regia Scuola di Ostetrica e Maternità. Sposa Maria Levada e poco dopo nasce un figlio. Come ginecologo ed ostetrico apre uno studio al numero 3 di via Bottini dove continua ad esercitare fino all’età di settant’anni. Il 3 gennaio del 1963 il Dottor Professor Angelo Loschi muore all'improvviso. Il suo corpo riposa nel cimitero di Novara.