Abelli Giovanni
Soldato
91° Brigata Basilicata
Nato il 6 agosto 1891 a Casalmaggiore (CR)
Morto il 13 dicembre 1916 in Val Travenanzes per valanga
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
A Vicomoscano, una frazione del Comune di Casalmaggiore in provincia di Cremona, il 6 agosto del
1891 viene al mondo il figlio di Massimino Abelli, noto in paese per la sua bravura nel
confezionare, a prezzi onesti, scarpe e ciabatte buone per tutti gli usi. Maddalena Bini, la sua
giovane moglie, bada alla casa e quando serve dà una mano in negozio. Giovanni - così hanno deciso
di chiamare il loro figliolo - lo battezzano nella chiesa di San Pietro e lo tirano su, tra casa e
bottega, mandandolo a scuola fino alla quinta elementare. Buon sangue non mente ed avendo imparato
il mestiere, Giovanni è ben presto in grado di affiancare suo padre nel tagliar cuoio e feltro e
nel dar forma a suole e tomaie.
All’età di ventitre anni il ragazzo parte per il servizio militare ed a Torino raggiunge la caserma
Pietro Micca dove viene assegnato alla 5ª compagnia del 91° reggimento della brigata Basilicata.
Allo scoppio della guerra contro l’Austria parte per il fronte ed in treno raggiunge Longarone da
dove prosegue per il Cadore, un po’ ancora in treno e per il resto a piedi, incolonnato assieme
agli altri verso Santo Stefano e poi San Pietro. Una passeggiata di una trentina di chilometri non
è infondo un gran ché per dei baldi giovani, se non fosse per tutto l’armamentario che ciascuno si
deve portare al seguito: lo zaino affardellato con le cinghie che tagliano le spalle, il tascapane
e la borraccia che battono il fondo schiena, le giberne sul davanti, il fucile a tracolla,
l’elmetto e tutto il resto della bardatura. E gli scarponi poi, non sono certo comodi come le
calzature che Giovanni è abituato ad indossare, quelle che lui stesso sa confezionare così bene
nella bottega di suo padre! Ogni cinque o sei chilometri la colonna si ferma per un breve riposo e
ad ogni ripartenza lo zaino sembra farsi più pesante e scomodo. Bisogna comunque proseguire, sempre
a passo strada, ai due lati della carreggiata perché in mezzo si deve lasciar posto alle carrette,
ai camion ed alle automobili che vanno e vengono per i rifornimenti. Partiti all’alba, i fanti
arrivano a San Pietro di Cadore che è sera fatta e si accampano come possono un po’ nei fienili ed
il resto sotto le tende. Non si sta poi male così acquartierati ed anche il rancio è abbastanza
saporito e poi, per chi proprio non s’accontenta, in paese c’è una trattoria dove si può mangiare
seduti a tavola, come i signori ... a spese proprie s’intende! Ma la pacchia dura solo qualche
giorno perché da lì a poco la compagnia si rimette in marcia per raggiungere la linea del fronte in
faccia allo sbarramento di Sexten.
Nonostante il buon comportamento di tutti i fanti, che in quei giorni ricevono il battesimo del
fuoco, il primo tentativo di sfondare le linee austriache risulta vano e sanguinoso. In prima
linea, a consolare i tanti feriti ed a benedire i poveri morti c’è don
Cravosio, il cappellano
che per il suo coraggio verrà premiato con una medaglia al valore.
All’alba del 18 luglio sul Monte Cavallino si è alzata la nebbia e, nonostante la stagione, cade
acqua mista a neve. Forte è il disagio dei fanti, ma le condizioni sono ideali per un attacco a
sorpresa. Col suo plotone avanza in silenzio anche il soldato Giovanni Abelli ma nel momento
cruciale, appena raggiunta la fila dei reticolati, la nebbia si dissolve e gli austriaci aprono il
fuoco. Giovanni assiste alla morte del suo ufficiale, il sottotenente
Dettoni che, colpito ad una gamba incita i suoi a non cedere, ma
preso nuovamente di mira poco dopo viene centrato in piena fronte. Con lui, a fine giornata,
saranno in molti a mancare all’appello, compreso il comandante del battaglione, il maggiore
Riva Rocci, che è stato dato per disperso. Di lui nessuno sa
dire se sia morto o caduto prigioniero. Giovanni invece, con una buona dose di fortuna e con
l’assistenza della Madonna che sua madre invoca ogni giorno per lui, se la cava solo con qualche
graffio. Quel primo scontro è però solo un assaggio della cruda realtà della guerra: con alterna
sorte gli attacchi alle posizioni austriache si succedono senza tregua ed alla fine di ogni giorno
Giovanni ringrazia il cielo per aver avuta salva la pelle. Il 4 agosto è sul Monte Rotheck e vi
ritorna il 6 settembre per ripetere l’assalto. Poi viene trasferito sul Col di Lana a rischiare la
vita sul costone di Salesei, ma per fortuna quell’anno la neve arriva precoce ovattando ogni cosa,
anche i combattimenti.
Il rigido inverno lo passa nelle retrovie, a Lorenzago di Cadore, ma ben presto la guerra torna a
reclamare altro sangue ed allora anche i fanti della 5ª compagnia del 91° vengono di nuovo chiamati
a dare il loro contributo, prima al passo Tre Croci, poi in Val Boite. A metà giugno Giovanni è tra
quelli che si lanciano all’attacco della Croda dell’Ancona, poi all’assalto di Cima Vanscuro,
quindi è in Val Costeana a prestar servizio di rifornimento ai piedi delle Tofane.
Anche il successivo inverno, quello del 1916, si annuncia precoce e già ad ottobre comincia a
nevicare. A dicembre la coltre bianca raggiunge i quattro metri d’altezza ed in qualche punto
supera perfino i nove metri. Le valanghe cadono un po’ ovunque ma il servizio di vettovagliamento
non si può fermare. Assieme ad altri della sua compagnia anche Giovanni arranca nella neve, un
passo dopo l’altro, coi piedi freddi che sprofondano sotto il peso di tutto il materiale che si
porta sulle spalle. Il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, è di nuovo di servizio agli ordini
dell’aspirante Bruno Pisani e con lui c’é anche il suo buon amico
Francesco Enoch che, strada facendo, racconta di quant’è bello il
suo paese, sospeso come un terrazzo sulle acque del Lago Maggiore, un balcone fiorito coi giardini
ricolmi di azalee, camelie e rododendri, piante che Giovanni non ha mai neppure sentito nominare.
Anche Bruno non si tira indietro e parla di un grande monastero poco distante da casa sua, una
certosa per l’esattezza, circondata dai boschi utilizzati per produrre il carbone di legna.
“Come da noi” replica Francesco, scoprendo che, ovunque, i carbonai lavorano allo stesso modo.
Anche gli altri (Secondo Ballestreri da Annicco - Cremona, Emanuele Balzarini da Cadrezzate -
Varese, Girolamo Barba da Ponte dell’Oglio - Piacenza, Vincenzo Daniele da Cupello - Chieti,
Giuseppe Di Fabio da Mozzagrogna - Chieti, Guido Lavino-Zona da Cossato - Vercelli, Crisostomo
Lucchesi da Coreglia Antelminelli - Siena, Domenico Magnano da Sortino - Siracusa, Stefano Steli da
Fagnano Alto - L'Aquila) della squadra si uniscono alle chiacchiere, ciascuno preso dalla nostalgia
per la propria terra. Passo dopo passo, tra un ricordo e l’altro, gli uomini procedono nella neve
scendendo dal Col dei Bos verso i Sassi della Val Travenanzes dove i compagni attendono con
impazienza il rancio, i rifornimenti, qualche genere di conforto ma più che altro la posta da
casa. D’improvviso, verso le undici di mattina, un rombo minaccioso interrompe i loro pensieri,
viene dall’alto, cupo e micidiale. Sanno già di che cosa si tratta ed hanno appena il tempo di
alzare lo sguardo per dare un’occhiata alla nube bianca che turbina cadendo fragorosa verso di
loro. Mollano il carico e cercano un riparo che non c’è. La valanga li travolge e li trascina a
valle. Dopo aver molte volte rischiato la pelle in combattimento sfuggendo alle fucilate, alle
raffiche di mitragliatrice ed alle cannonate, l’esiguo drappello di fanti è sconfitto dalla furia
della natura che, senza distinguere l’una dall’altra parte del fronte, quel giorno e la notte
seguente miete moltissime vittime militari e civili.
Quel mercoledì, il 13 dicembre del 1916, sarà tristemente ricordato come il giorno della
“Santa Lucia Nera”. Tra i tanti altri, anche quegli sfortunati ragazzi del 91° reggimento di
fanteria, l’uno affianco all’altro, riposano oggi nel Sacrario di Pocol a Cortina d’Ampezzo.
Soldato Giovanni Abelli
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Nato il 6 agosto 1891 a Casalmaggiore (CR)
Morto il 13 dicembre 1916 in Val Travenanzes per valanga
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
A Vicomoscano, una frazione del Comune di Casalmaggiore in provincia di Cremona, il 6 agosto del
1891 viene al mondo il figlio di Massimino Abelli, noto in paese per la sua bravura nel
confezionare, a prezzi onesti, scarpe e ciabatte buone per tutti gli usi. Maddalena Bini, la sua
giovane moglie, bada alla casa e quando serve dà una mano in negozio. Giovanni - così hanno deciso
di chiamare il loro figliolo - lo battezzano nella chiesa di San Pietro e lo tirano su, tra casa e
bottega, mandandolo a scuola fino alla quinta elementare. Buon sangue non mente ed avendo imparato
il mestiere, Giovanni è ben presto in grado di affiancare suo padre nel tagliar cuoio e feltro e
nel dar forma a suole e tomaie.
All’età di ventitre anni il ragazzo parte per il servizio militare ed a Torino raggiunge la caserma
Pietro Micca dove viene assegnato alla 5ª compagnia del 91° reggimento della brigata Basilicata.
Allo scoppio della guerra contro l’Austria parte per il fronte ed in treno raggiunge Longarone da
dove prosegue per il Cadore, un po’ ancora in treno e per il resto a piedi, incolonnato assieme
agli altri verso Santo Stefano e poi San Pietro. Una passeggiata di una trentina di chilometri non
è infondo un gran ché per dei baldi giovani, se non fosse per tutto l’armamentario che ciascuno si
deve portare al seguito: lo zaino affardellato con le cinghie che tagliano le spalle, il tascapane
e la borraccia che battono il fondo schiena, le giberne sul davanti, il fucile a tracolla,
l’elmetto e tutto il resto della bardatura. E gli scarponi poi, non sono certo comodi come le
calzature che Giovanni è abituato ad indossare, quelle che lui stesso sa confezionare così bene
nella bottega di suo padre! Ogni cinque o sei chilometri la colonna si ferma per un breve riposo e
ad ogni ripartenza lo zaino sembra farsi più pesante e scomodo. Bisogna comunque proseguire, sempre
a passo strada, ai due lati della carreggiata perché in mezzo si deve lasciar posto alle carrette,
ai camion ed alle automobili che vanno e vengono per i rifornimenti. Partiti all’alba, i fanti
arrivano a San Pietro di Cadore che è sera fatta e si accampano come possono un po’ nei fienili ed
il resto sotto le tende. Non si sta poi male così acquartierati ed anche il rancio è abbastanza
saporito e poi, per chi proprio non s’accontenta, in paese c’è una trattoria dove si può mangiare
seduti a tavola, come i signori ... a spese proprie s’intende! Ma la pacchia dura solo qualche
giorno perché da lì a poco la compagnia si rimette in marcia per raggiungere la linea del fronte in
faccia allo sbarramento di Sexten.
Nonostante il buon comportamento di tutti i fanti, che in quei giorni ricevono il battesimo del
fuoco, il primo tentativo di sfondare le linee austriache risulta vano e sanguinoso. In prima
linea, a consolare i tanti feriti ed a benedire i poveri morti c’è don
Cravosio, il cappellano
che per il suo coraggio verrà premiato con una medaglia al valore.
All’alba del 18 luglio sul Monte Cavallino si è alzata la nebbia e, nonostante la stagione, cade
acqua mista a neve. Forte è il disagio dei fanti, ma le condizioni sono ideali per un attacco a
sorpresa. Col suo plotone avanza in silenzio anche il soldato Giovanni Abelli ma nel momento
cruciale, appena raggiunta la fila dei reticolati, la nebbia si dissolve e gli austriaci aprono il
fuoco. Giovanni assiste alla morte del suo ufficiale, il sottotenente
Dettoni che, colpito ad una gamba incita i suoi a non cedere, ma
preso nuovamente di mira poco dopo viene centrato in piena fronte. Con lui, a fine giornata,
saranno in molti a mancare all’appello, compreso il comandante del battaglione, il maggiore
Riva Rocci, che è stato dato per disperso. Di lui nessuno sa
dire se sia morto o caduto prigioniero. Giovanni invece, con una buona dose di fortuna e con
l’assistenza della Madonna che sua madre invoca ogni giorno per lui, se la cava solo con qualche
graffio. Quel primo scontro è però solo un assaggio della cruda realtà della guerra: con alterna
sorte gli attacchi alle posizioni austriache si succedono senza tregua ed alla fine di ogni giorno
Giovanni ringrazia il cielo per aver avuta salva la pelle. Il 4 agosto è sul Monte Rotheck e vi
ritorna il 6 settembre per ripetere l’assalto. Poi viene trasferito sul Col di Lana a rischiare la
vita sul costone di Salesei, ma per fortuna quell’anno la neve arriva precoce ovattando ogni cosa,
anche i combattimenti.
Il rigido inverno lo passa nelle retrovie, a Lorenzago di Cadore, ma ben presto la guerra torna a
reclamare altro sangue ed allora anche i fanti della 5ª compagnia del 91° vengono di nuovo chiamati
a dare il loro contributo, prima al passo Tre Croci, poi in Val Boite. A metà giugno Giovanni è tra
quelli che si lanciano all’attacco della Croda dell’Ancona, poi all’assalto di Cima Vanscuro,
quindi è in Val Costeana a prestar servizio di rifornimento ai piedi delle Tofane.
Anche il successivo inverno, quello del 1916, si annuncia precoce e già ad ottobre comincia a
nevicare. A dicembre la coltre bianca raggiunge i quattro metri d’altezza ed in qualche punto
supera perfino i nove metri. Le valanghe cadono un po’ ovunque ma il servizio di vettovagliamento
non si può fermare. Assieme ad altri della sua compagnia anche Giovanni arranca nella neve, un
passo dopo l’altro, coi piedi freddi che sprofondano sotto il peso di tutto il materiale che si
porta sulle spalle. Il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, è di nuovo di servizio agli ordini
dell’aspirante Bruno Pisani e con lui c’é anche il suo buon amico
Francesco Enoch che, strada facendo, racconta di quant’è bello il
suo paese, sospeso come un terrazzo sulle acque del Lago Maggiore, un balcone fiorito coi giardini
ricolmi di azalee, camelie e rododendri, piante che Giovanni non ha mai neppure sentito nominare.
Anche Bruno non si tira indietro e parla di un grande monastero poco distante da casa sua, una
certosa per l’esattezza, circondata dai boschi utilizzati per produrre il carbone di legna.
“Come da noi” replica Francesco, scoprendo che, ovunque, i carbonai lavorano allo stesso modo.
Anche gli altri (Secondo Ballestreri da Annicco - Cremona, Emanuele Balzarini da Cadrezzate -
Varese, Girolamo Barba da Ponte dell’Oglio - Piacenza, Vincenzo Daniele da Cupello - Chieti,
Giuseppe Di Fabio da Mozzagrogna - Chieti, Guido Lavino-Zona da Cossato - Vercelli, Crisostomo
Lucchesi da Coreglia Antelminelli - Siena, Domenico Magnano da Sortino - Siracusa, Stefano Steli da
Fagnano Alto - L'Aquila) della squadra si uniscono alle chiacchiere, ciascuno preso dalla nostalgia
per la propria terra. Passo dopo passo, tra un ricordo e l’altro, gli uomini procedono nella neve
scendendo dal Col dei Bos verso i Sassi della Val Travenanzes dove i compagni attendono con
impazienza il rancio, i rifornimenti, qualche genere di conforto ma più che altro la posta da
casa. D’improvviso, verso le undici di mattina, un rombo minaccioso interrompe i loro pensieri,
viene dall’alto, cupo e micidiale. Sanno già di che cosa si tratta ed hanno appena il tempo di
alzare lo sguardo per dare un’occhiata alla nube bianca che turbina cadendo fragorosa verso di
loro. Mollano il carico e cercano un riparo che non c’è. La valanga li travolge e li trascina a
valle. Dopo aver molte volte rischiato la pelle in combattimento sfuggendo alle fucilate, alle
raffiche di mitragliatrice ed alle cannonate, l’esiguo drappello di fanti è sconfitto dalla furia
della natura che, senza distinguere l’una dall’altra parte del fronte, quel giorno e la notte
seguente miete moltissime vittime militari e civili.
Quel mercoledì, il 13 dicembre del 1916, sarà tristemente ricordato come il giorno della
“Santa Lucia Nera”. Tra i tanti altri, anche quegli sfortunati ragazzi del 91° reggimento di
fanteria, l’uno affianco all’altro, riposano oggi nel Sacrario di Pocol a Cortina d’Ampezzo.
Soldato Giovanni Abelli