Jannetta Enrico
Sottotenente di complemento
7° Alpini, 68ª cp. battaglione Pieve di Cadore
Nato in provincia di Roma nel 1889
Morto a Roma nel 1985
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
Prima della guerra
Enrico Jannetta nasce nei dintorni di Roma nell’anno 1889 da una famiglia di agricoltori. Fin da
ragazzo dà sfogo alla propria esuberanza dedicandosi a lunghe camminate ed agili pedalate nei
dintorni della sua città, azzardando ogni tanto anche qualche nuotata nelle acque del Tevere.
All’età di diciassette anni, sui Monti Simbruini, tra Lazio ed Abruzzo, ha per la prima volta
l’occasione di mettersi alla prova sui sentieri di montagna ed entusiasta di quell’esperienza, da
lì a poco si iscrive al Club Alpino Italiano aderendo più tardi alla Sezione Universitaria, la
SUCAI, con la quale partecipa ad alcune escursioni cimentandosi anche in qualche arrampicata in
roccia sui Monti Lucretili, le montagne che sorgono ad una cinquantina di chilometri ad Est di
Roma.
La Grande Guerra
Ha già compiuto i 26 anni quando parte per la guerra, e come iscritto al Club Alpino lo destinano
alle truppe da montagna. Parte quindi per Verona dov’è stato mandato a frequentare un corso
accelerato per ufficiali di complemento e poco più tardi, aggregato alla 68ª compagnia del
Battaglione Pieve di Cadore, partecipa con soddisfazione ad un
corso invernale di alpinismo durante il quale sa farsi apprezzare per il buon carattere e le innate
doti di resistenza fisica.
Jannetta è un ufficiale di poche parole, moderato nell’esprimere i propri sentimenti, certamente poco
intransigente ma, come asseriscono i suoi superiori, dotato comunque di belle qualità militari. Lo
apprezza in particolar modo il capitano Giovanni Sala che lo vuole con sé al comando del 2° gruppo
della sua squadra di “Mascabroni”, quelli che, dice lui stesso: “ ... vuol dire gente rude, ardita,
noncurante dei disagi e, se vogliamo, anche un po' strafottente al modo alpino, ma sempre generosa
e pronta a dare in qualunque momento il proprio sangue per la Patria e per i compagni. [...] soldati
un po' 'brontoloni', ma in definitiva sempre di buon umore e sostanzialmente molto disciplinati;
gente tutto cuore e tutta sostanza; poca forma, che molto spesso è ipocrisia".
Il sottotenente Enrico Jannetta in divisa mimetica invernale
(da una foto del 1° aprile 2016, B.S.C. di Vigo di Cadore - “Carte Sala”)
Cima Undici, l’Elferkofel per gli austriaci, rappresenta la porta di accesso al Passo della
Sentinella, una posizione strategica da cui si domina tutta la Val Padola, nel Comelico Superiore.
Tre sanguinosi assalti sono già stati tentati per riprendere quella passo sconsideratamente
abbandonato dagli italiani dopo che vi avevano già messo piede all’inizio della guerra. Dominando la
scena dai torrioni delle due cime adiacenti, i Kaiserjäger hanno però respinto facilmente tutti e
tre i tentativi di riconquistarlo. Ora il generale
Venturi è più che mai convinto dell’importanza
di rioccupare al più presto quella posizione, ed ai primi di gennaio del 1916 incarica il capitano
Sala di condurre l’operazione. Per tutto l’inverno attrezzature di ogni genere vengono trasportate
sulle forcelle e sulle cime per essere stivate in caverne, baracche e tane nella neve. E’ un
compito senza tregua che viene eseguito preferibilmente di notte, sovente sotto fitte nevicate o
nella nebbia per rimanere celati agli austriaci. Vengono stese linee telefoniche, installata una
stazione eliografica, e nei primi giorni di aprile gli artiglieri portano in quota anche un cannone
da montagna.
Nel frattempo si organizzano i reparti d’attacco: uno di scalatori agli ordini dell’aspirante
Italo Lunelli, altri due di volontari, i “Mascabroni” del capitano
Sala, esperti montanari al comando dei sottotenenti Mario De Poi ed Enrico Jannetta. Lo strano
accento “ciociaro” di Enrico è accettato dai suoi alpini, tutti settentrionali, usi a badare più
alla sostanza ed al valore della persona che alle apparenze, perché è lo spirito di corpo che conta,
ed il sottotenente Jannetta lo ha capito molto bene. Gli ostacoli da superare nell’impresa sono
maledettamente difficili e pericolosi, e più delle stellette cucite sulla giacchetta valgono la
piena fiducia l’uno nell’altro, la coesione del gruppo ed il suo perfetto coordinamento.
Per avvicinarsi all’obiettivo, gli alpini percorrono col favore delle tenebre un tratto della cresta
Zsigmondy, tutti vestiti di bianco per nascondersi alla vista degli osservatori austriaci appostati
sulla Croda Rossa. Procedono lentamente perché le tracce sulla neve devono essere accuratamente
cancellate. Il secondo tratto, più riparato ma non meno difficile, li fa avvicinare alla base della
Punta Sud Est e da lì i “Mascabroni” attaccano la traversata verso la Punta Nord di Cima Undici
lottando col ghiaccio e con lo spesso manto nevoso. Alcuni uomini vengono lasciati sulla Cresta ed
alla baracca della “Mensola”, sotto la Punta Sud Est, per mantenere i collegamenti e tenere attive
le linee telefoniche.
Intanto gli uomini di Lunelli, muovendo dal Sasso Fuoco, hanno raggiunto il Pianoro del Dito e si
sono liberati dei suoi difensori; raggiunti dalla squadra del sottotenente Leida ora si apprestano
all’assalto. Anche i “Mascabroni” di De Poi sono pronti a scattare da Forcella Da Col e quelli di
Jannetta da Forcella Dal Canton. Gli austriaci sul Passo della Sentinella sono ormai isolati e
chiusi in una morsa. All’alba del 16 aprile del 1916 tutte le bocche da fuoco italiane sparano
all’unisono: l’artiglieria dal Creston Popera tira sulla Croda Rossa e sul Passo; apre il fuoco
anche la mitragliatrice manovrata dal sottotenente Passerini dalla Forcella della Tenda; il
lanciabombe e la mitragliatrice di Forcella Da Col inchiodano i rinforzi che stanno risalendo dal
fondo di Val Fiscalina e contro di loro fa fuoco anche il plotone di Lunelli dal Pianoro del Dito.
Gli alpini di De Poi si lanciano all’attacco scivolando sulla neve per 350 metri seguiti subito
dopo da quelli di Jannetta. Dal Vallon Popera scatta frontalmente un plotone al comando del
sottotenente Piero Martini che arriva per primo sul Passo. I sedici austriaci che difendono la
postazione sono sbigottiti, increduli e sopraffatti. Sette, al riparo nella caverna, sono bloccati
dalle raffiche incrociate delle mitragliatrici e dagli uomini di Lunelli inerpicati sul Pianoro del
Dito. Un graduato rimane ucciso, gli altri riescono a fuggire. Alle 13,45 il Passo della Sentinella
è in mano agli alpini; il termometro segna 30° sotto zero.
Dopo l’impresa di Cima Undici Jannetta resta aggregato al Comando del Settore Padola-Visdende fino
al mese di novembre del 1917 quando giunge l’ordine di ritirarsi verso la linea del Piave.
Assegnato al battaglione “Val Cismon” partecipa alla “battaglia d’arresto” sul Monte Grappa dove il
25 novembre gli austro-tedeschi, dopo un violento fuoco delle artiglierie, sferrano l’attacco
occupando il Monte Solarolo. I cinque successivi contrattacchi frontali non riescono a sloggiare
gli avversari, ma una manovra accerchiante da parte dei fanti della brigata “Taranto” e degli
alpini della 143ª e 144ª compagnia del “Val Cismon”, col concorso delle penne nere del “Val
Cenischia”, riesce nell’intento di riconquistare la posizione. In quell’occasione Enrico Jannetta,
nel frattempo promosso al grado di tenente, merita una medaglia d’argento perché: “Durante un
contrattacco diretto a riconquistare una posizione momentaneamente perduta, guidò con mirabile
slancio le truppe ai suoi ordini, e incitando queste con la voce e con l’esempio, giungeva primo
sulla posizione stessa, riuscendo a cacciarne l’avversario catturandogli prigionieri. (Monte
Solarolo, 25 novembre 1917)".
Il primo, risoluto tentativo austro-tedesco di sfondare sul Grappa è fallito; Jannetta può
concedersi coi suoi uomini un breve riposo nei pressi del Casone Bocaor, poco distante dalla linea
di battaglia. Dopo pochi giorni, l’11 dicembre, viene però richiamato all’azione. Alle 7 di mattina
tutti i pezzi dell’artiglieria avversaria hanno aperto il fuoco, prima verso la cima dello
Spinoncia e poi, dal primo pomeriggio, verso il Monte Valderoa. Come da ordini ricevuti anche
Jannetta, alla testa del suo reparto, scende prima in Val Calcino per poi risalire verso la cima del
Monte Medata. La zona è completamente sgombra, ma un centinaio di alpini perdono comunque la vita a
causa dei continui cannoneggiamenti e per l’attacco da parte di alcuni aerei che sganciano ordigni
esplosivi su quelle posizioni. Il battaglione si sposta quindi nuovamente, inviato ora a presidiare
la linea tra il Valderoa ed il Solarolo sulla sinistra del Torrente Calcino. Le truppe germaniche,
muovendo da Fontana Secca, hanno occupato il Valderoa ma vengono ricacciate dal sopraggiungere
degli alpini; ritentano la conquista, ma ogni loro sforzo s’infrange contro la tenace difesa degli
uomini del capitano Ettore Masini che comanda il battaglione. Verso sera, di tre compagnie tedesche
rimangono vivi solo una ventina di uomini che son fatti prigionieri; per tutta la notte si sentono
gli strazianti lamenti dei feriti che giacciono senza aiuto non distante dalle posizioni italiane.
Agli attaccanti germanici si unisce anche la fanteria austriaca, ma la fermezza ed il valore degli
alpini sventa per un’intera settimana i nuovi assalti. La mattina del 17 dicembre per tre ore
continue il Valderoa viene insistentemente bombardato. Gli alpini del “Val Cismon” si proteggono un
po’ alla meglio appena al di là del crinale; il tenente Jannetta viene colpito da un frammento di
granata ma non si da per vinto, meritando per la seconda volta una medaglia d’argento: “Ferito da
una scheggia di bomba avversaria, dopo una sommaria medicazione, volontariamente tornava al posto
di combattimento ed animando col suo fermo contegno i superstiti del proprio plotone,
gagliardamente si opponeva all’irrompere del nemico, trattenendolo col lancio di bombe a mano,
finché nuovamente e gravemente ferito, dovette essere trasportato al posto di medicazione. (Monte
Valderoa, 17 dicembre 1917)".
Il “Val Cismon” è infine esausto e decimato, ma non ha ceduto agli avversari neppure un palmo di
terreno, anzi, è riuscito ad avanzare migliorando le posizioni della propria linea di difesa. Gli
asprissimi scontri sostenuti in quelle epiche giornate giovano al battaglione una medaglia di
bronzo «Per il valore, la tenacia e la saldezza di cui dette prova opponendosi fieramente, sul
massiccio del Grappa, all’avanzata di soverchianti forze nemiche. (Monte Tomatico, Monte Solarolo,
Monte Valderoa; 1-18 dicembre 1917)».
Il 22 dicembre i 230 superstiti del battaglione vanno a riposo a Paderno d’Asolo e Jannetta accetta
finalmente di farsi ricoverare all’ospedale. Torna in linea con la sua compagnia quando, in
previsione della battaglia autunnale, questa rientra in zona Grappa provenendo dal “settore destra
Adige”. In ottobre è ancora sul Solarolo e finalmente nella giornata del 31, conclusosi
l’armistizio, scende a Mugnai di Feltre.
Il dopoguerra
La guerra è finita ed Enrico può finalmente tornare in famiglia. A Roma trova lavoro come impiegato
presso la Cassa Nazionale di Previdenza, ma dalla guerra combattuta sulle Dolomiti e sul Grappa ha
portato a casa, oltre all’onore, anche un assoluto rispetto per la montagna ed una rinnovata
passione per l’alpinismo. Non più solo escursioni, ora è in grado di esprimere tutte le sue
capacità nell’arrampicata in roccia, nello sci e se non bastasse, anche nella speleologia. Già nel
1919 torna sui Monti Lucretili, al Monte Morra, e sul Gran Sasso apre una nuova via sul Torrione
Cambi. L’anno successivo è attratto dalle voragini carsiche dei Meri sul Monte Soratte, “porte
degli inferi” profonde fino a 115 metri. Nel contempo lo coglie la nostalgia e torna sulle Dolomiti
per qualche arrampicata alle Torri del Sella, sulla Marmolada e sul Sasso Lungo. Per festeggiare i
suoi 32 anni d’età, nel 1921 si regala l’esplorazione della zona Ortles-Cevedale ed un anno più
tardi, sul Gran Sasso, è a capo di una comitiva di sei alpinisti romani ad esplorare nuovi
itinerari compiendo, il 19 luglio, la prima ascensione al Paretone della Vetta Orientale lungo una
nuova via che prenderà il nome di “Canale Jannetta”.
Enrico Jannetta nel 1922 durante la salita al Paretone
Spendendo i suoi ultimi giorni di ferie, nella stessa estate si reca anche sulle Dolomiti di Sesto
attratto dalla punta più grande, i Tre Scarperi, e dalla Piccola di Lavaredo.
Non contento, al termine dell’estate successiva accompagna il conte Aldo Bonacossa, uno dei
pionieri dell’alpinismo milanese, alla conquista delle creste Nord-est ed Ovest del Corno Piccolo.
La sua intensa attività alpinistica continua anche negli anni seguenti assieme alla moglie Agnese
Aiò, di origini ebraiche, anch’essa iscritta al Club Alpino fino alla sua espulsione avvenuta per
ragioni di discriminazione razziale. Per solidarietà con la sua compagna anche Jannetta restituisce
la tessera de CAI, ma la stima dei compagni di cordata e l’ammirazione dei giovani rocciatori che
da lui hanno preso l’esempio, lo eleggono comunque “padre dell'alpinismo romano”.
Enrico ha mantenuto intanto una stretta corrispondenza con i vecchi compagni d’arme, anche col
capitano Sala al quale esprime le proprie perplessità nei confronti dell’operato di Italo Lunelli,
nel frattempo divenuto ministro del regime fascista, al quale, suppone, siano stati attribuiti
eccessivi meriti per l’azione al Passo della Sentinella.
Nel 1935, girando dalle parti di quella che ormai considera la sua montagna, sui Valloni del Gran
Sasso s’imbatte in un cantiere della ditta “Ceretti & Tanfani” che, scopre, ha l’incarico di
realizzare una funivia ad anello che, una volta terminata, raggiungerà la quota di 2.130 metri a
Campo Imperatore. Il caso vuole che il direttore dei lavori sia una sua vecchia conoscenza, un
alpino suo pari grado incontrato sul Grappa col quale ha condiviso le sorti del battaglione “Val
Cismon”. Davanti a un buon bicchiere di montepulciano i ricordi di Enrico e di
Mario Cadorin riaffiorano, ed il loro pensiero torna alle epiche
giornate del Solaroli e del Valderoa. Enrico gli racconta della sua grande passione per la montagna,
ma anche dei tre figli che lo attendono a casa che gli danno altro a cui pensare: a 46 anni suonati
considera che sia ben ora di mettere la testa apposto! Ma quando di anni ne compie 55 viene al
mondo un altro figlio ed allora, appena questo riesce a reggersi sulle proprie gambe, ad Enrico
torna la smania dell’alpinismo. Crescendo il ragazzo manifesta la sua stessa passione e così padre
e figlio vanno a far pratica prima sul Monte Morra, passano più tardi ad assaporare anche la
“fragranza” delle rocce dolomitiche. Ormai sulla soglia dei settant’anni Enrico pretende di fare
ancora da capocordata, ma col passare degli anni le parti si invertono, ed allora è suo figlio a
fargli sicurezza con una corda un po’ più malleabile della vecchia, rigida Manilla usata da suo
padre. Quando ha un po’ di tempo, Enrico si dedica anche alle nuove generazioni ed organizza
istruttive escursioni per quelli che lui stesso chiama “i suoi giovani allievi”. “Preferisco
tornare coi giovani perché i vecchi fanno sempre gli stessi discorsi ed io non li sopporto ...”.
Enrico Jannetta in tarda età coi suoi allievi al Monte Morra
Non ancora pago delle proprie avventure, l’indomito Jannetta non disdegna ogni tanto qualche
passeggiata sci-alpinistica ed ormai ad ottant’anni suonati, rispolvera la sua vecchia piccozza per
salire ancora una volta sulla falesia di Monte Leano. Suo figlio Sandro, che l’accompagna anche in
quell’occasione, ricorderà che suo padre si era rifiutato di percorrere la via più facile,
scegliendo piuttosto di inerpicarsi lungo una parete a metà della quale si era fermato a dare
qualche buon consiglio di tecnica alpinistica ad un signore visto in difficoltà.
Nel’ultimo periodo della sua vita Enrico è impegnato come consulente del SUCAI, senza però
rinunciare, quando può, a qualche salutare camminata lungo i sentieri che consce ormai come le
proprie tasche, sotto lo sguardo ammirato e talvolta sbalordito di chi ha il piacere d’incontrarlo
e di conoscerlo.
Enrico Jannetta si spegne a Roma nel 1985 alla veneranda età di 96 anni.
NOTA: Per la composizione di questi appunti ci si è avvalsi di informazioni fornite dall’archivio
della Biblioteca dei CAI di Torino e spunti tratti dai testi “Giorni della grande pietra” di
Stefano Ardito e “I conquistatori del Gran Sasso” di Marco Dell’Omo.
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Nato in provincia di Roma nel 1889
Morto a Roma nel 1985
Note biografiche (Archivio Franco Licini)
Prima della guerra
Enrico Jannetta nasce nei dintorni di Roma nell’anno 1889 da una famiglia di agricoltori. Fin da ragazzo dà sfogo alla propria esuberanza dedicandosi a lunghe camminate ed agili pedalate nei dintorni della sua città, azzardando ogni tanto anche qualche nuotata nelle acque del Tevere. All’età di diciassette anni, sui Monti Simbruini, tra Lazio ed Abruzzo, ha per la prima volta l’occasione di mettersi alla prova sui sentieri di montagna ed entusiasta di quell’esperienza, da lì a poco si iscrive al Club Alpino Italiano aderendo più tardi alla Sezione Universitaria, la SUCAI, con la quale partecipa ad alcune escursioni cimentandosi anche in qualche arrampicata in roccia sui Monti Lucretili, le montagne che sorgono ad una cinquantina di chilometri ad Est di Roma.La Grande Guerra
Ha già compiuto i 26 anni quando parte per la guerra, e come iscritto al Club Alpino lo destinano alle truppe da montagna. Parte quindi per Verona dov’è stato mandato a frequentare un corso accelerato per ufficiali di complemento e poco più tardi, aggregato alla 68ª compagnia del Battaglione Pieve di Cadore, partecipa con soddisfazione ad un corso invernale di alpinismo durante il quale sa farsi apprezzare per il buon carattere e le innate doti di resistenza fisica. Jannetta è un ufficiale di poche parole, moderato nell’esprimere i propri sentimenti, certamente poco intransigente ma, come asseriscono i suoi superiori, dotato comunque di belle qualità militari. Lo apprezza in particolar modo il capitano Giovanni Sala che lo vuole con sé al comando del 2° gruppo della sua squadra di “Mascabroni”, quelli che, dice lui stesso: “ ... vuol dire gente rude, ardita, noncurante dei disagi e, se vogliamo, anche un po' strafottente al modo alpino, ma sempre generosa e pronta a dare in qualunque momento il proprio sangue per la Patria e per i compagni. [...] soldati un po' 'brontoloni', ma in definitiva sempre di buon umore e sostanzialmente molto disciplinati; gente tutto cuore e tutta sostanza; poca forma, che molto spesso è ipocrisia".
(da una foto del 1° aprile 2016, B.S.C. di Vigo di Cadore - “Carte Sala”)
Cima Undici, l’Elferkofel per gli austriaci, rappresenta la porta di accesso al Passo della
Sentinella, una posizione strategica da cui si domina tutta la Val Padola, nel Comelico Superiore.
Tre sanguinosi assalti sono già stati tentati per riprendere quella passo sconsideratamente
abbandonato dagli italiani dopo che vi avevano già messo piede all’inizio della guerra. Dominando la
scena dai torrioni delle due cime adiacenti, i Kaiserjäger hanno però respinto facilmente tutti e
tre i tentativi di riconquistarlo. Ora il generale
Venturi è più che mai convinto dell’importanza
di rioccupare al più presto quella posizione, ed ai primi di gennaio del 1916 incarica il capitano
Sala di condurre l’operazione. Per tutto l’inverno attrezzature di ogni genere vengono trasportate
sulle forcelle e sulle cime per essere stivate in caverne, baracche e tane nella neve. E’ un
compito senza tregua che viene eseguito preferibilmente di notte, sovente sotto fitte nevicate o
nella nebbia per rimanere celati agli austriaci. Vengono stese linee telefoniche, installata una
stazione eliografica, e nei primi giorni di aprile gli artiglieri portano in quota anche un cannone
da montagna.
Nel frattempo si organizzano i reparti d’attacco: uno di scalatori agli ordini dell’aspirante
Italo Lunelli, altri due di volontari, i “Mascabroni” del capitano
Sala, esperti montanari al comando dei sottotenenti Mario De Poi ed Enrico Jannetta. Lo strano
accento “ciociaro” di Enrico è accettato dai suoi alpini, tutti settentrionali, usi a badare più
alla sostanza ed al valore della persona che alle apparenze, perché è lo spirito di corpo che conta,
ed il sottotenente Jannetta lo ha capito molto bene. Gli ostacoli da superare nell’impresa sono
maledettamente difficili e pericolosi, e più delle stellette cucite sulla giacchetta valgono la
piena fiducia l’uno nell’altro, la coesione del gruppo ed il suo perfetto coordinamento.
Per avvicinarsi all’obiettivo, gli alpini percorrono col favore delle tenebre un tratto della cresta
Zsigmondy, tutti vestiti di bianco per nascondersi alla vista degli osservatori austriaci appostati
sulla Croda Rossa. Procedono lentamente perché le tracce sulla neve devono essere accuratamente
cancellate. Il secondo tratto, più riparato ma non meno difficile, li fa avvicinare alla base della
Punta Sud Est e da lì i “Mascabroni” attaccano la traversata verso la Punta Nord di Cima Undici
lottando col ghiaccio e con lo spesso manto nevoso. Alcuni uomini vengono lasciati sulla Cresta ed
alla baracca della “Mensola”, sotto la Punta Sud Est, per mantenere i collegamenti e tenere attive
le linee telefoniche.
Intanto gli uomini di Lunelli, muovendo dal Sasso Fuoco, hanno raggiunto il Pianoro del Dito e si
sono liberati dei suoi difensori; raggiunti dalla squadra del sottotenente Leida ora si apprestano
all’assalto. Anche i “Mascabroni” di De Poi sono pronti a scattare da Forcella Da Col e quelli di
Jannetta da Forcella Dal Canton. Gli austriaci sul Passo della Sentinella sono ormai isolati e
chiusi in una morsa. All’alba del 16 aprile del 1916 tutte le bocche da fuoco italiane sparano
all’unisono: l’artiglieria dal Creston Popera tira sulla Croda Rossa e sul Passo; apre il fuoco
anche la mitragliatrice manovrata dal sottotenente Passerini dalla Forcella della Tenda; il
lanciabombe e la mitragliatrice di Forcella Da Col inchiodano i rinforzi che stanno risalendo dal
fondo di Val Fiscalina e contro di loro fa fuoco anche il plotone di Lunelli dal Pianoro del Dito.
Gli alpini di De Poi si lanciano all’attacco scivolando sulla neve per 350 metri seguiti subito
dopo da quelli di Jannetta. Dal Vallon Popera scatta frontalmente un plotone al comando del
sottotenente Piero Martini che arriva per primo sul Passo. I sedici austriaci che difendono la
postazione sono sbigottiti, increduli e sopraffatti. Sette, al riparo nella caverna, sono bloccati
dalle raffiche incrociate delle mitragliatrici e dagli uomini di Lunelli inerpicati sul Pianoro del
Dito. Un graduato rimane ucciso, gli altri riescono a fuggire. Alle 13,45 il Passo della Sentinella
è in mano agli alpini; il termometro segna 30° sotto zero.
Dopo l’impresa di Cima Undici Jannetta resta aggregato al Comando del Settore Padola-Visdende fino
al mese di novembre del 1917 quando giunge l’ordine di ritirarsi verso la linea del Piave.
Assegnato al battaglione “Val Cismon” partecipa alla “battaglia d’arresto” sul Monte Grappa dove il
25 novembre gli austro-tedeschi, dopo un violento fuoco delle artiglierie, sferrano l’attacco
occupando il Monte Solarolo. I cinque successivi contrattacchi frontali non riescono a sloggiare
gli avversari, ma una manovra accerchiante da parte dei fanti della brigata “Taranto” e degli
alpini della 143ª e 144ª compagnia del “Val Cismon”, col concorso delle penne nere del “Val
Cenischia”, riesce nell’intento di riconquistare la posizione. In quell’occasione Enrico Jannetta,
nel frattempo promosso al grado di tenente, merita una medaglia d’argento perché: “Durante un
contrattacco diretto a riconquistare una posizione momentaneamente perduta, guidò con mirabile
slancio le truppe ai suoi ordini, e incitando queste con la voce e con l’esempio, giungeva primo
sulla posizione stessa, riuscendo a cacciarne l’avversario catturandogli prigionieri. (Monte
Solarolo, 25 novembre 1917)".
Il primo, risoluto tentativo austro-tedesco di sfondare sul Grappa è fallito; Jannetta può
concedersi coi suoi uomini un breve riposo nei pressi del Casone Bocaor, poco distante dalla linea
di battaglia. Dopo pochi giorni, l’11 dicembre, viene però richiamato all’azione. Alle 7 di mattina
tutti i pezzi dell’artiglieria avversaria hanno aperto il fuoco, prima verso la cima dello
Spinoncia e poi, dal primo pomeriggio, verso il Monte Valderoa. Come da ordini ricevuti anche
Jannetta, alla testa del suo reparto, scende prima in Val Calcino per poi risalire verso la cima del
Monte Medata. La zona è completamente sgombra, ma un centinaio di alpini perdono comunque la vita a
causa dei continui cannoneggiamenti e per l’attacco da parte di alcuni aerei che sganciano ordigni
esplosivi su quelle posizioni. Il battaglione si sposta quindi nuovamente, inviato ora a presidiare
la linea tra il Valderoa ed il Solarolo sulla sinistra del Torrente Calcino. Le truppe germaniche,
muovendo da Fontana Secca, hanno occupato il Valderoa ma vengono ricacciate dal sopraggiungere
degli alpini; ritentano la conquista, ma ogni loro sforzo s’infrange contro la tenace difesa degli
uomini del capitano Ettore Masini che comanda il battaglione. Verso sera, di tre compagnie tedesche
rimangono vivi solo una ventina di uomini che son fatti prigionieri; per tutta la notte si sentono
gli strazianti lamenti dei feriti che giacciono senza aiuto non distante dalle posizioni italiane.
Agli attaccanti germanici si unisce anche la fanteria austriaca, ma la fermezza ed il valore degli
alpini sventa per un’intera settimana i nuovi assalti. La mattina del 17 dicembre per tre ore
continue il Valderoa viene insistentemente bombardato. Gli alpini del “Val Cismon” si proteggono un
po’ alla meglio appena al di là del crinale; il tenente Jannetta viene colpito da un frammento di
granata ma non si da per vinto, meritando per la seconda volta una medaglia d’argento: “Ferito da
una scheggia di bomba avversaria, dopo una sommaria medicazione, volontariamente tornava al posto
di combattimento ed animando col suo fermo contegno i superstiti del proprio plotone,
gagliardamente si opponeva all’irrompere del nemico, trattenendolo col lancio di bombe a mano,
finché nuovamente e gravemente ferito, dovette essere trasportato al posto di medicazione. (Monte
Valderoa, 17 dicembre 1917)".
Il “Val Cismon” è infine esausto e decimato, ma non ha ceduto agli avversari neppure un palmo di
terreno, anzi, è riuscito ad avanzare migliorando le posizioni della propria linea di difesa. Gli
asprissimi scontri sostenuti in quelle epiche giornate giovano al battaglione una medaglia di
bronzo «Per il valore, la tenacia e la saldezza di cui dette prova opponendosi fieramente, sul
massiccio del Grappa, all’avanzata di soverchianti forze nemiche. (Monte Tomatico, Monte Solarolo,
Monte Valderoa; 1-18 dicembre 1917)».
Il 22 dicembre i 230 superstiti del battaglione vanno a riposo a Paderno d’Asolo e Jannetta accetta
finalmente di farsi ricoverare all’ospedale. Torna in linea con la sua compagnia quando, in
previsione della battaglia autunnale, questa rientra in zona Grappa provenendo dal “settore destra
Adige”. In ottobre è ancora sul Solarolo e finalmente nella giornata del 31, conclusosi
l’armistizio, scende a Mugnai di Feltre.
Il dopoguerra
La guerra è finita ed Enrico può finalmente tornare in famiglia. A Roma trova lavoro come impiegato presso la Cassa Nazionale di Previdenza, ma dalla guerra combattuta sulle Dolomiti e sul Grappa ha portato a casa, oltre all’onore, anche un assoluto rispetto per la montagna ed una rinnovata passione per l’alpinismo. Non più solo escursioni, ora è in grado di esprimere tutte le sue capacità nell’arrampicata in roccia, nello sci e se non bastasse, anche nella speleologia. Già nel 1919 torna sui Monti Lucretili, al Monte Morra, e sul Gran Sasso apre una nuova via sul Torrione Cambi. L’anno successivo è attratto dalle voragini carsiche dei Meri sul Monte Soratte, “porte degli inferi” profonde fino a 115 metri. Nel contempo lo coglie la nostalgia e torna sulle Dolomiti per qualche arrampicata alle Torri del Sella, sulla Marmolada e sul Sasso Lungo. Per festeggiare i suoi 32 anni d’età, nel 1921 si regala l’esplorazione della zona Ortles-Cevedale ed un anno più tardi, sul Gran Sasso, è a capo di una comitiva di sei alpinisti romani ad esplorare nuovi itinerari compiendo, il 19 luglio, la prima ascensione al Paretone della Vetta Orientale lungo una nuova via che prenderà il nome di “Canale Jannetta”.
Spendendo i suoi ultimi giorni di ferie, nella stessa estate si reca anche sulle Dolomiti di Sesto
attratto dalla punta più grande, i Tre Scarperi, e dalla Piccola di Lavaredo.
Non contento, al termine dell’estate successiva accompagna il conte Aldo Bonacossa, uno dei
pionieri dell’alpinismo milanese, alla conquista delle creste Nord-est ed Ovest del Corno Piccolo.
La sua intensa attività alpinistica continua anche negli anni seguenti assieme alla moglie Agnese
Aiò, di origini ebraiche, anch’essa iscritta al Club Alpino fino alla sua espulsione avvenuta per
ragioni di discriminazione razziale. Per solidarietà con la sua compagna anche Jannetta restituisce
la tessera de CAI, ma la stima dei compagni di cordata e l’ammirazione dei giovani rocciatori che
da lui hanno preso l’esempio, lo eleggono comunque “padre dell'alpinismo romano”.
Enrico ha mantenuto intanto una stretta corrispondenza con i vecchi compagni d’arme, anche col
capitano Sala al quale esprime le proprie perplessità nei confronti dell’operato di Italo Lunelli,
nel frattempo divenuto ministro del regime fascista, al quale, suppone, siano stati attribuiti
eccessivi meriti per l’azione al Passo della Sentinella.
Nel 1935, girando dalle parti di quella che ormai considera la sua montagna, sui Valloni del Gran
Sasso s’imbatte in un cantiere della ditta “Ceretti & Tanfani” che, scopre, ha l’incarico di
realizzare una funivia ad anello che, una volta terminata, raggiungerà la quota di 2.130 metri a
Campo Imperatore. Il caso vuole che il direttore dei lavori sia una sua vecchia conoscenza, un
alpino suo pari grado incontrato sul Grappa col quale ha condiviso le sorti del battaglione “Val
Cismon”. Davanti a un buon bicchiere di montepulciano i ricordi di Enrico e di
Mario Cadorin riaffiorano, ed il loro pensiero torna alle epiche
giornate del Solaroli e del Valderoa. Enrico gli racconta della sua grande passione per la montagna,
ma anche dei tre figli che lo attendono a casa che gli danno altro a cui pensare: a 46 anni suonati
considera che sia ben ora di mettere la testa apposto! Ma quando di anni ne compie 55 viene al
mondo un altro figlio ed allora, appena questo riesce a reggersi sulle proprie gambe, ad Enrico
torna la smania dell’alpinismo. Crescendo il ragazzo manifesta la sua stessa passione e così padre
e figlio vanno a far pratica prima sul Monte Morra, passano più tardi ad assaporare anche la
“fragranza” delle rocce dolomitiche. Ormai sulla soglia dei settant’anni Enrico pretende di fare
ancora da capocordata, ma col passare degli anni le parti si invertono, ed allora è suo figlio a
fargli sicurezza con una corda un po’ più malleabile della vecchia, rigida Manilla usata da suo
padre. Quando ha un po’ di tempo, Enrico si dedica anche alle nuove generazioni ed organizza
istruttive escursioni per quelli che lui stesso chiama “i suoi giovani allievi”. “Preferisco
tornare coi giovani perché i vecchi fanno sempre gli stessi discorsi ed io non li sopporto ...”.
Non ancora pago delle proprie avventure, l’indomito Jannetta non disdegna ogni tanto qualche
passeggiata sci-alpinistica ed ormai ad ottant’anni suonati, rispolvera la sua vecchia piccozza per
salire ancora una volta sulla falesia di Monte Leano. Suo figlio Sandro, che l’accompagna anche in
quell’occasione, ricorderà che suo padre si era rifiutato di percorrere la via più facile,
scegliendo piuttosto di inerpicarsi lungo una parete a metà della quale si era fermato a dare
qualche buon consiglio di tecnica alpinistica ad un signore visto in difficoltà.
Nel’ultimo periodo della sua vita Enrico è impegnato come consulente del SUCAI, senza però
rinunciare, quando può, a qualche salutare camminata lungo i sentieri che consce ormai come le
proprie tasche, sotto lo sguardo ammirato e talvolta sbalordito di chi ha il piacere d’incontrarlo
e di conoscerlo.
Enrico Jannetta si spegne a Roma nel 1985 alla veneranda età di 96 anni.
NOTA: Per la composizione di questi appunti ci si è avvalsi di informazioni fornite dall’archivio della Biblioteca dei CAI di Torino e spunti tratti dai testi “Giorni della grande pietra” di Stefano Ardito e “I conquistatori del Gran Sasso” di Marco Dell’Omo.