Nazione Jannetta Enrico

Grado Sottotenente di complemento

Mostrina  7° Alpini, 68ª cp. battaglione Pieve di Cadore

Ritratto

Nato in provincia di Roma nel 1889

Morto a Roma nel 1985

Note biografiche (Archivio Franco Licini)

Prima della guerra

Enrico Jannetta nasce nei dintorni di Roma nell’anno 1889 da una famiglia di agricoltori. Fin da ragazzo dà sfogo alla propria esuberanza dedicandosi a lunghe camminate ed agili pedalate nei dintorni della sua città, azzardando ogni tanto anche qualche nuotata nelle acque del Tevere. All’età di diciassette anni, sui Monti Simbruini, tra Lazio ed Abruzzo, ha per la prima volta l’occasione di mettersi alla prova sui sentieri di montagna ed entusiasta di quell’esperienza, da lì a poco si iscrive al Club Alpino Italiano aderendo più tardi alla Sezione Universitaria, la SUCAI, con la quale partecipa ad alcune escursioni cimentandosi anche in qualche arrampicata in roccia sui Monti Lucretili, le montagne che sorgono ad una cinquantina di chilometri ad Est di Roma.

La Grande Guerra

Ha già compiuto i 26 anni quando parte per la guerra, e come iscritto al Club Alpino lo destinano alle truppe da montagna. Parte quindi per Verona dov’è stato mandato a frequentare un corso accelerato per ufficiali di complemento e poco più tardi, aggregato alla 68ª compagnia del Battaglione Pieve di Cadore, partecipa con soddisfazione ad un corso invernale di alpinismo durante il quale sa farsi apprezzare per il buon carattere e le innate doti di resistenza fisica. Jannetta è un ufficiale di poche parole, moderato nell’esprimere i propri sentimenti, certamente poco intransigente ma, come asseriscono i suoi superiori, dotato comunque di belle qualità militari. Lo apprezza in particolar modo il capitano Giovanni Sala che lo vuole con sé al comando del 2° gruppo della sua squadra di “Mascabroni”, quelli che, dice lui stesso: “ ... vuol dire gente rude, ardita, noncurante dei disagi e, se vogliamo, anche un po' strafottente al modo alpino, ma sempre generosa e pronta a dare in qualunque momento il proprio sangue per la Patria e per i compagni. [...] soldati un po' 'brontoloni', ma in definitiva sempre di buon umore e sostanzialmente molto disciplinati; gente tutto cuore e tutta sostanza; poca forma, che molto spesso è ipocrisia".

Enrico Jannetta Il sottotenente Enrico Jannetta in divisa mimetica invernale
(da una foto del 1° aprile 2016, B.S.C. di Vigo di Cadore - “Carte Sala”)

Cima Undici, l’Elferkofel per gli austriaci, rappresenta la porta di accesso al Passo della Sentinella, una posizione strategica da cui si domina tutta la Val Padola, nel Comelico Superiore. Tre sanguinosi assalti sono già stati tentati per riprendere quella passo sconsideratamente abbandonato dagli italiani dopo che vi avevano già messo piede all’inizio della guerra. Dominando la scena dai torrioni delle due cime adiacenti, i Kaiserjäger hanno però respinto facilmente tutti e tre i tentativi di riconquistarlo. Ora il generale Venturi è più che mai convinto dell’importanza di rioccupare al più presto quella posizione, ed ai primi di gennaio del 1916 incarica il capitano Sala di condurre l’operazione. Per tutto l’inverno attrezzature di ogni genere vengono trasportate sulle forcelle e sulle cime per essere stivate in caverne, baracche e tane nella neve. E’ un compito senza tregua che viene eseguito preferibilmente di notte, sovente sotto fitte nevicate o nella nebbia per rimanere celati agli austriaci. Vengono stese linee telefoniche, installata una stazione eliografica, e nei primi giorni di aprile gli artiglieri portano in quota anche un cannone da montagna. Nel frattempo si organizzano i reparti d’attacco: uno di scalatori agli ordini dell’aspirante Italo Lunelli, altri due di volontari, i “Mascabroni” del capitano Sala, esperti montanari al comando dei sottotenenti Mario De Poi ed Enrico Jannetta. Lo strano accento “ciociaro” di Enrico è accettato dai suoi alpini, tutti settentrionali, usi a badare più alla sostanza ed al valore della persona che alle apparenze, perché è lo spirito di corpo che conta, ed il sottotenente Jannetta lo ha capito molto bene. Gli ostacoli da superare nell’impresa sono maledettamente difficili e pericolosi, e più delle stellette cucite sulla giacchetta valgono la piena fiducia l’uno nell’altro, la coesione del gruppo ed il suo perfetto coordinamento.
Per avvicinarsi all’obiettivo, gli alpini percorrono col favore delle tenebre un tratto della cresta Zsigmondy, tutti vestiti di bianco per nascondersi alla vista degli osservatori austriaci appostati sulla Croda Rossa. Procedono lentamente perché le tracce sulla neve devono essere accuratamente cancellate. Il secondo tratto, più riparato ma non meno difficile, li fa avvicinare alla base della Punta Sud Est e da lì i “Mascabroni” attaccano la traversata verso la Punta Nord di Cima Undici lottando col ghiaccio e con lo spesso manto nevoso. Alcuni uomini vengono lasciati sulla Cresta ed alla baracca della “Mensola”, sotto la Punta Sud Est, per mantenere i collegamenti e tenere attive le linee telefoniche. Intanto gli uomini di Lunelli, muovendo dal Sasso Fuoco, hanno raggiunto il Pianoro del Dito e si sono liberati dei suoi difensori; raggiunti dalla squadra del sottotenente Leida ora si apprestano all’assalto. Anche i “Mascabroni” di De Poi sono pronti a scattare da Forcella Da Col e quelli di Jannetta da Forcella Dal Canton. Gli austriaci sul Passo della Sentinella sono ormai isolati e chiusi in una morsa. All’alba del 16 aprile del 1916 tutte le bocche da fuoco italiane sparano all’unisono: l’artiglieria dal Creston Popera tira sulla Croda Rossa e sul Passo; apre il fuoco anche la mitragliatrice manovrata dal sottotenente Passerini dalla Forcella della Tenda; il lanciabombe e la mitragliatrice di Forcella Da Col inchiodano i rinforzi che stanno risalendo dal fondo di Val Fiscalina e contro di loro fa fuoco anche il plotone di Lunelli dal Pianoro del Dito. Gli alpini di De Poi si lanciano all’attacco scivolando sulla neve per 350 metri seguiti subito dopo da quelli di Jannetta. Dal Vallon Popera scatta frontalmente un plotone al comando del sottotenente Piero Martini che arriva per primo sul Passo. I sedici austriaci che difendono la postazione sono sbigottiti, increduli e sopraffatti. Sette, al riparo nella caverna, sono bloccati dalle raffiche incrociate delle mitragliatrici e dagli uomini di Lunelli inerpicati sul Pianoro del Dito. Un graduato rimane ucciso, gli altri riescono a fuggire. Alle 13,45 il Passo della Sentinella è in mano agli alpini; il termometro segna 30° sotto zero.
Dopo l’impresa di Cima Undici Jannetta resta aggregato al Comando del Settore Padola-Visdende fino al mese di novembre del 1917 quando giunge l’ordine di ritirarsi verso la linea del Piave. Assegnato al battaglione “Val Cismon” partecipa alla “battaglia d’arresto” sul Monte Grappa dove il 25 novembre gli austro-tedeschi, dopo un violento fuoco delle artiglierie, sferrano l’attacco occupando il Monte Solarolo. I cinque successivi contrattacchi frontali non riescono a sloggiare gli avversari, ma una manovra accerchiante da parte dei fanti della brigata “Taranto” e degli alpini della 143ª e 144ª compagnia del “Val Cismon”, col concorso delle penne nere del “Val Cenischia”, riesce nell’intento di riconquistare la posizione. In quell’occasione Enrico Jannetta, nel frattempo promosso al grado di tenente, merita una medaglia d’argento perché: “Durante un contrattacco diretto a riconquistare una posizione momentaneamente perduta, guidò con mirabile slancio le truppe ai suoi ordini, e incitando queste con la voce e con l’esempio, giungeva primo sulla posizione stessa, riuscendo a cacciarne l’avversario catturandogli prigionieri. (Monte Solarolo, 25 novembre 1917)".
Il primo, risoluto tentativo austro-tedesco di sfondare sul Grappa è fallito; Jannetta può concedersi coi suoi uomini un breve riposo nei pressi del Casone Bocaor, poco distante dalla linea di battaglia. Dopo pochi giorni, l’11 dicembre, viene però richiamato all’azione. Alle 7 di mattina tutti i pezzi dell’artiglieria avversaria hanno aperto il fuoco, prima verso la cima dello Spinoncia e poi, dal primo pomeriggio, verso il Monte Valderoa. Come da ordini ricevuti anche Jannetta, alla testa del suo reparto, scende prima in Val Calcino per poi risalire verso la cima del Monte Medata. La zona è completamente sgombra, ma un centinaio di alpini perdono comunque la vita a causa dei continui cannoneggiamenti e per l’attacco da parte di alcuni aerei che sganciano ordigni esplosivi su quelle posizioni. Il battaglione si sposta quindi nuovamente, inviato ora a presidiare la linea tra il Valderoa ed il Solarolo sulla sinistra del Torrente Calcino. Le truppe germaniche, muovendo da Fontana Secca, hanno occupato il Valderoa ma vengono ricacciate dal sopraggiungere degli alpini; ritentano la conquista, ma ogni loro sforzo s’infrange contro la tenace difesa degli uomini del capitano Ettore Masini che comanda il battaglione. Verso sera, di tre compagnie tedesche rimangono vivi solo una ventina di uomini che son fatti prigionieri; per tutta la notte si sentono gli strazianti lamenti dei feriti che giacciono senza aiuto non distante dalle posizioni italiane. Agli attaccanti germanici si unisce anche la fanteria austriaca, ma la fermezza ed il valore degli alpini sventa per un’intera settimana i nuovi assalti. La mattina del 17 dicembre per tre ore continue il Valderoa viene insistentemente bombardato. Gli alpini del “Val Cismon” si proteggono un po’ alla meglio appena al di là del crinale; il tenente Jannetta viene colpito da un frammento di granata ma non si da per vinto, meritando per la seconda volta una medaglia d’argento: “Ferito da una scheggia di bomba avversaria, dopo una sommaria medicazione, volontariamente tornava al posto di combattimento ed animando col suo fermo contegno i superstiti del proprio plotone, gagliardamente si opponeva all’irrompere del nemico, trattenendolo col lancio di bombe a mano, finché nuovamente e gravemente ferito, dovette essere trasportato al posto di medicazione. (Monte Valderoa, 17 dicembre 1917)".
Il “Val Cismon” è infine esausto e decimato, ma non ha ceduto agli avversari neppure un palmo di terreno, anzi, è riuscito ad avanzare migliorando le posizioni della propria linea di difesa. Gli asprissimi scontri sostenuti in quelle epiche giornate giovano al battaglione una medaglia di bronzo «Per il valore, la tenacia e la saldezza di cui dette prova opponendosi fieramente, sul massiccio del Grappa, all’avanzata di soverchianti forze nemiche. (Monte Tomatico, Monte Solarolo, Monte Valderoa; 1-18 dicembre 1917)».
Il 22 dicembre i 230 superstiti del battaglione vanno a riposo a Paderno d’Asolo e Jannetta accetta finalmente di farsi ricoverare all’ospedale. Torna in linea con la sua compagnia quando, in previsione della battaglia autunnale, questa rientra in zona Grappa provenendo dal “settore destra Adige”. In ottobre è ancora sul Solarolo e finalmente nella giornata del 31, conclusosi l’armistizio, scende a Mugnai di Feltre.

Il dopoguerra

La guerra è finita ed Enrico può finalmente tornare in famiglia. A Roma trova lavoro come impiegato presso la Cassa Nazionale di Previdenza, ma dalla guerra combattuta sulle Dolomiti e sul Grappa ha portato a casa, oltre all’onore, anche un assoluto rispetto per la montagna ed una rinnovata passione per l’alpinismo. Non più solo escursioni, ora è in grado di esprimere tutte le sue capacità nell’arrampicata in roccia, nello sci e se non bastasse, anche nella speleologia. Già nel 1919 torna sui Monti Lucretili, al Monte Morra, e sul Gran Sasso apre una nuova via sul Torrione Cambi. L’anno successivo è attratto dalle voragini carsiche dei Meri sul Monte Soratte, “porte degli inferi” profonde fino a 115 metri. Nel contempo lo coglie la nostalgia e torna sulle Dolomiti per qualche arrampicata alle Torri del Sella, sulla Marmolada e sul Sasso Lungo. Per festeggiare i suoi 32 anni d’età, nel 1921 si regala l’esplorazione della zona Ortles-Cevedale ed un anno più tardi, sul Gran Sasso, è a capo di una comitiva di sei alpinisti romani ad esplorare nuovi itinerari compiendo, il 19 luglio, la prima ascensione al Paretone della Vetta Orientale lungo una nuova via che prenderà il nome di “Canale Jannetta”.

Enrico Jannetta Enrico Jannetta nel 1922 durante la salita al Paretone

Spendendo i suoi ultimi giorni di ferie, nella stessa estate si reca anche sulle Dolomiti di Sesto attratto dalla punta più grande, i Tre Scarperi, e dalla Piccola di Lavaredo. Non contento, al termine dell’estate successiva accompagna il conte Aldo Bonacossa, uno dei pionieri dell’alpinismo milanese, alla conquista delle creste Nord-est ed Ovest del Corno Piccolo. La sua intensa attività alpinistica continua anche negli anni seguenti assieme alla moglie Agnese Aiò, di origini ebraiche, anch’essa iscritta al Club Alpino fino alla sua espulsione avvenuta per ragioni di discriminazione razziale. Per solidarietà con la sua compagna anche Jannetta restituisce la tessera de CAI, ma la stima dei compagni di cordata e l’ammirazione dei giovani rocciatori che da lui hanno preso l’esempio, lo eleggono comunque “padre dell'alpinismo romano”.
Enrico ha mantenuto intanto una stretta corrispondenza con i vecchi compagni d’arme, anche col capitano Sala al quale esprime le proprie perplessità nei confronti dell’operato di Italo Lunelli, nel frattempo divenuto ministro del regime fascista, al quale, suppone, siano stati attribuiti eccessivi meriti per l’azione al Passo della Sentinella.
Nel 1935, girando dalle parti di quella che ormai considera la sua montagna, sui Valloni del Gran Sasso s’imbatte in un cantiere della ditta “Ceretti & Tanfani” che, scopre, ha l’incarico di realizzare una funivia ad anello che, una volta terminata, raggiungerà la quota di 2.130 metri a Campo Imperatore. Il caso vuole che il direttore dei lavori sia una sua vecchia conoscenza, un alpino suo pari grado incontrato sul Grappa col quale ha condiviso le sorti del battaglione “Val Cismon”. Davanti a un buon bicchiere di montepulciano i ricordi di Enrico e di Mario Cadorin riaffiorano, ed il loro pensiero torna alle epiche giornate del Solaroli e del Valderoa. Enrico gli racconta della sua grande passione per la montagna, ma anche dei tre figli che lo attendono a casa che gli danno altro a cui pensare: a 46 anni suonati considera che sia ben ora di mettere la testa apposto! Ma quando di anni ne compie 55 viene al mondo un altro figlio ed allora, appena questo riesce a reggersi sulle proprie gambe, ad Enrico torna la smania dell’alpinismo. Crescendo il ragazzo manifesta la sua stessa passione e così padre e figlio vanno a far pratica prima sul Monte Morra, passano più tardi ad assaporare anche la “fragranza” delle rocce dolomitiche. Ormai sulla soglia dei settant’anni Enrico pretende di fare ancora da capocordata, ma col passare degli anni le parti si invertono, ed allora è suo figlio a fargli sicurezza con una corda un po’ più malleabile della vecchia, rigida Manilla usata da suo padre. Quando ha un po’ di tempo, Enrico si dedica anche alle nuove generazioni ed organizza istruttive escursioni per quelli che lui stesso chiama “i suoi giovani allievi”. “Preferisco tornare coi giovani perché i vecchi fanno sempre gli stessi discorsi ed io non li sopporto ...”.

Enrico Jannetta Enrico Jannetta in tarda età coi suoi allievi al Monte Morra

Non ancora pago delle proprie avventure, l’indomito Jannetta non disdegna ogni tanto qualche passeggiata sci-alpinistica ed ormai ad ottant’anni suonati, rispolvera la sua vecchia piccozza per salire ancora una volta sulla falesia di Monte Leano. Suo figlio Sandro, che l’accompagna anche in quell’occasione, ricorderà che suo padre si era rifiutato di percorrere la via più facile, scegliendo piuttosto di inerpicarsi lungo una parete a metà della quale si era fermato a dare qualche buon consiglio di tecnica alpinistica ad un signore visto in difficoltà.
Nel’ultimo periodo della sua vita Enrico è impegnato come consulente del SUCAI, senza però rinunciare, quando può, a qualche salutare camminata lungo i sentieri che consce ormai come le proprie tasche, sotto lo sguardo ammirato e talvolta sbalordito di chi ha il piacere d’incontrarlo e di conoscerlo.
Enrico Jannetta si spegne a Roma nel 1985 alla veneranda età di 96 anni.

NOTA: Per la composizione di questi appunti ci si è avvalsi di informazioni fornite dall’archivio della Biblioteca dei CAI di Torino e spunti tratti dai testi “Giorni della grande pietra” di Stefano Ardito e “I conquistatori del Gran Sasso” di Marco Dell’Omo.