La morte del magg. Bosi e del cap. Gregori
17 luglio 1915
Nei giorni 16, 17 e 18 luglio la 96ª del
Pieve di Cadore, ritornata alle posizioni raggiunte
il 15, attendendo che i battaglioni di fanteria riescano a raggiungerla, rafforza il terreno della
sua posizione avanzata, batte le due mulattiere che salgono dalla Valle della Rienza, riconosce
con pattuglie la praticabilità dei burroni che fiancheggiano il monte, fa esplodere col tiro di
una pattuglia di alpini collocati su rocce cadenti a picco le "fogate petriere" di cui è seminato
il terreno, impedisce che giungano viveri agli austriaci per la mulattiera militare. La nebbia però
ostacola il tiro.
All'alba del 17 luglio si lanciò all'assalto il 4°/9ª/III/55° (serg.
Boenco): il magg.
Bosi osserva in piedi presso la Piramide
Carducci fino a quando non viene centrato al cuore da un tiratore austriaco e si accascia tra le
braccia del suo attendente Saetta e del caporale portaordini Bernacchi.
L'impeto della 9ª venne arrestato dalla morte di
Boenco e dal mancato concorso della 96ª
che avrebbe dovuto tagliar fuori il segmento avanzato della trincea austriaca che batteva la
Forcella ed impediva ai fanti italiani di dare l'assalto alla ridotta.
Il comando delle truppe fu assunto dal magg.
Gavagnin che si trovava in una delle
anse del dirupo sotto il ciglio occidentale: alle 7 questi manda al cap.
Gregori un ciclista con l'ordine di
far passare al di là della Forcella anche la 11ª. Questa riuscì a passare grazie ad un improvviso
banco di nebbia, e potè così raggiungere la 12ª e la 9ª.
Alle 10 giunge l'ordine di far passare anche la 10ª, ma non per rinforzare le altre, ma piuttosto
per metterla a disposizione del cap.
Rossi che chiedeva protezione sul retro
prima di lanciare i suoi all'assalto. A quell'ora però il cielo era tornato limpidissimo ed il
passaggio per il sentiero era diventato impossibile; il comandante della compagnia (ten.
Meneghetti) chiese ed ottenne di
potersi recare da solo a parlare col cap.
Rossi per trovare un'altra via. Ma quando
tenta di alzarsi, una scarica di fucileria lo costringe a riabbassarsi e falcia il "tamburino"
Scalise. Approfittando di un colpo da
280 che centra il segmento della trincea austriaca, il comandante della compagnia raggiunge
l'angolo morto dove si sono riparati i soldati delle tre compagnie.
"Allora una scena tragica si parò agli occhi suoi e di tutti. Il I° capitano Gregori comparve in capo al sentierino, per scendere. Fra lui e le truppe spettatrici potevan correre ottanta metri in linea d'aria, ma il tratto sul terreno era insuperabile. Se Gregori si fosse lanciato con destrezza ed accorgimento, avrebbe forse potuto avere la stessa buona sorte del comandante della 10ª: invece avanzava passo passo, diritto e disfidante. Così lo colse presto una palla sotto il ginocchio destro. Non si scompose; tolse di tasca il pacchetto di medicazione e cominciò a svolger la fascia lentamente, forse credendo che i nemici non avrebbero più sparato contro uno già ferito. Ma non aveva ancora cominciato a fasciarsi la gamba che un'altra pallottola lo colse tra il naso e la bocca. In quel chiaro mattino, in cui parea di toccar gli oggetti anche molto più lontani, tutti lo videro distintamente portar la destra a quel punto e poi guardarsi il palmo insanguinato. Allora quindici, venti voci dei nostri gridarono ad alcuni soldati del Genio, ch'erano di là appiattati dietro le rocce affioranti di raccoglierlo. Due accorsero, ma, fatti pochi passi, caddero colpiti a morte. Accorsero altri due, e a prezzo di ferite riuscirono a compier l'opera pietosa ed eroica. Passarono cinque minuti, non più; poi sia che volesse dare un esempio incitatore allo sprezzo della vita, sia che alla morte comune in guerra, ormai certa, ne preferisce una memorabile, il capitano Gregori comparve di nuovo in vista ed avanzò fino al posto dove era stato colpito, col berretto spinto indietro per mostrar la fronte; e, colle braccia conserte, si diede a passeggiare avanti e indietro, offrendosi a tutti i colpi. Quella figura tragica avrebbe dovuto incutere rispetto o terrore. Invece non tardarono, i vili, a tempestarlo di piombo. Tuttavia per qualche po' fu questa materia bruta che non osò toccarlo. Allora, sempre con le braccia conserte, egli voltò le spalle ai nemici per disprezzo. Alfine ricevette un colpo mortale e cadde, o meglio, si adagiò per terra ... Sollevò ancora a mezz'aria il braccio destro; e il nemico, temendo risorgesse, puntò su quel corpo esanime la mitragliatrice e lo deturpò con centinaia di colpi."
Questo invece il racconto del fante Brusatin: "Ed eccoci stesi sotto l'ultimo ghiaione. Guardiamo esterrefatti la valle della morte. Un vecchio capitano fuor esce da un masso. Ha un foglio in mano, lo agita con tremolio convulso. Qualcuno mormora: 'E' ubriaco, povero capitano'. Una pallottola lo colpisce e cade in un flutto di polvere. Grida: 'Sono ferito!' Si rialza. Barcolla. Volge la schiena al nemico che lo crivella. E la mitraglia continua ininterrottamente. Due generosi della Croce Rossa s'accostano carponi per portarlo via. Uno rimane ferito. S'appiattano dietro i massi. Par di vedere la proiezione di una pellicola tremula."
Il comandante della 10ª scende alla testata del Vallon dei Castrati e riferisce al Rossi ed al comandante del III la fine di Gregori; il capitano del III, Ghedini, avrebbe dovuto assumere il comando, ma si ritirò in quanto si dichiarò debilitato. Dopodichè scende nel dirupo del ciglio occidentale di Monte Piana per chiedere al magg. Gavagnin il permesso di condurre la sua compagnia per il Vallon dei Castrati invece che per la Forcella; il permesso gli viene accordato. Incontra anche i capitani Mortara (7ª/56°) e Sammartino (6ª/56°) che dalla riserva generale di Forcella Bassa erano passate alla riserva di Monte Piana al fine di mantenere le eventuali posizioni conquistate. La 10ª riuscì a portarsi al Fosso Alpino passando per il Vallone, senza nemmeno un ferito. Con questo movimento si chiude la giornata del 17 luglio; per tutta la sera e la notte seguenti cade una pioggia maledetta che così ricorda il Meneghetti: "Quella notte mi resterà impressa finchè vivo. La tenebra pesta avvolgeva cento gruppetti di fanti e di alpini frammisti e diversi, quali sdraiati, quali accoccolati, quali ritti, quali poggiati l'uno sull'altro, tutti fradici, dispersi pel Fosso Alpino zuppo come una palude, articolando voci solo per esecrare, rivoltandosi di continuo per fare schermo dell'un de' fianchi all'altro, contro 'la pioggia fredda e maledetta e greve'. Ed ogni quarto d'ora una luce più odiosa della tenebra, lume dell'occhio sospettoso del Minotauro, fiore del male spuntava dal ciglio del terrazzo, descriveva un ampio arco e scendeva lenta sul centro del rettangolo, dove pochi secondi illuminava ogni cosa a giorno. Allora tutti ammutivano e ciascuno si irrigidiva nell'atto in cui si trovava, con quegli occhi sbarrati, con quelle facce smunte da tre giorni senza pane e due notti senza sonno, con quei cappelli schiacciati, con quelle vesti putride e lercie."
Durante la stessa giornata venne ferito ad un piede anche il pattugliere Matter.
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